Pesaro 44 - Otávio e as letras - Cine en construccion

São Paulo, Brasile. Otavio vive in un piccolo appartamento di una città di cui vediamo poco. Incontra nelle sue continue peregrinazioni, tra Chiesa, Canti gregoriani, casa e libreria, tutta una serie di personaggi strani, ambigui, posti sulla linea di confine tra sonno e veglia, tra realtà ed immaginazione.
Otavio ha un solo vero grande interesse nella vita: le immagini. Colleziona figure, le raccoglie, le cerca per le strade, le compra e poi se le porta a casa, quasi fossero reliquie da cui rubare bellezza e segreti. Le stanze della sua abitazione sono ricoperte da frammenti di giornali, da lettere rubate alla spazzatura, da pagine di libri scarabocchiate, oscurate. Anche i segni grafici della scrittura sono ridotti a mera immagine, perdono la loro dimensione di significante di un discorso e si introiettano all’interno della coscienza come figure di un sogno o di un incubo ricorrente.
La casa di Otavio diventa, così, una sorta di caverna di Platone, un antro chiuso alle influenze e alle correnti del mondo vero come un utero nel quale il personaggio può coltivare la sua solitudine quasi fosse il più bello dei fiori. Un fiore che ha bisogno di buio, di silenzio e di figure arcane che assumono significati via via più personali.
Un giorno bussa alla porta di Otavio, Clara: una ragazza che coltiva passioni non meno esclusiviste di quelle di Otavio. Ruba foto alla vita della vicina di casa, è in cerca di silenzi, ma anche di una condivisione. E’ l’incontro di due solitudini, il riconoscimento che può esistere qualcosa di più concreto delle figure bidimensionali che vengono stampate sulle pagine bianche delle nostre coscienze. Un’apertura timida verso l’esterno, verso l’altro, verso una rete relazionale che può essere più appagante del continuo soliloquio di personaggi che parlano a se stessi attraverso le immagini in modo sempre più contorto, più involuto, più incomprensibile.
Otávio e as letras è un film difficile a definirsi. Parte come complessa operazione metalinguistica che mette al centro del proprio discorso il nostro modo di leggere le immagini e poi si chiude su se stesso. Lo fa eleggendo a personaggio esemplare un emarginato, una persona che vive sino in fondo la propria autoesclusione esistenziale trasformandola in una necessità che è anche una non voluta scelta di vita.
La ripresa digitale amplifica la dimensione onirica del racconto, trasforma davvero le mura della casa in un antro platoniano umido, ma poco fecondo. La differenza tra questo film e il mito filosofico è tutta nella direzione del percorso. Per Platone superare la barriera delle immagini significa avviare un percorso conoscitivo che ci conduce dall’illusione alla realtà. L’uomo deve riconoscere le ombre per quel che sono, dei simulacri del vero, e gettare il suo sguardo fuori, prima sui volumi che hanno proiettato, sul muro, quelle stesse ombre e poi su quel sole da cui tutto proviene. Per Otavio, invece, la realtà è un qualcosa da rifuggire, un orrore che è già tutto intriso di immagini illusorie, popolato, com’è, da cartelloni pubblicitari, segnali stradali, giornali stesi ad asciugare il loro carico si notizie sugli espositori delle edicole, ed è, quindi, un’altra illusione. Collettiva per di più.
La caverna platoniana diventa, quindi, un antro umido, certamente più simile ad una tomba che non ad un utero fecondo, da cui non credi mai possa sortire qualcosa di vivo e di vero, ma è pur sempre un rifugio, una via di fuga da un mondo che fa troppo male.
La metafora del film è scoperta. Forse troppo nella sua limpidezza cristallina, ma è resa abbastanza ambigua dall’impossibilità di connotare in senso davvero positivo la realtà che ci circonda rispetto al chiuso della nostra coscienza che quella realtà dovrebbe filtrare. Otavio, da parte sua, questa realtà non vuole comprenderla più, non ne vuole essere toccato. E’ costretto, è vero, ad andare in libreria in cerca di immagini per le sue pareti, ma questo è un passaggio provvisorio un punto di transizione tra sè e la sua casa. La sua realtà è quella dello zero. Ambigua. Non puoi dire che sia semplicemente nulla perchè lo zero è il vuoto, ma anche il punto da cui tutto inizia. Così, come nell’Elliott di The wasta land, la terra gelata di aprile, il più crudele dei mesi, è dura al tatto, tombale ed umida, ma prepara il seme al suo doloroso germoglio.
Qual’è, dunque, il germogliare di Otavio? Non è ben chiaro, perchè se nel finale dallo zero dell’appartamento si passa al pieno. L’uno diventa due (Otavio e Clara insieme), ma questo due resta al chiuso, nella coscienza piana di un reciproco riconoscersi.
Il mondo fuori è ancora brutto, la trasformazione, la capacità di crescere resta ancorata all’interno della caverna platoniana.
Otávio e as letras è un film ambiguo nei contenuti (il che è un merito, in fondo), ma sostanzialmente irrisolto nell’estetica. Il digitale non pare impiegato al massimo delle sue potenzialità e il moltiplicarsi di immagini nell’immagine spinge il discorso verso un’autoreferenzialità che si fa spesso fastidiosa. Tuttavia non lascia indifferenti. Non piccolo merito.
(Otavio e as letras); Regia: Marcelo Masagão; sceneggiatura: Andréa Menezes, Marcelo Masagão; fotografia: Tiago Lage; montaggio: Andréa Menezes Marcelo Masagão, Jurandir Muller; musica: Wim Mertens; interpreti: Donizete Mazonas, Fábio Malavoglia, Arieta Corrêa, Heitor Goldflus; produzione: Agência Observatorio; origine: Brasile, 2007; durata: 83’
