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Pesaro 44 - Solanas e La hora de los hornos

Pubblicato il 26 giugno 2008 da Alessandro Izzi


Pesaro 44 - Solanas e La hora de los hornos

La hora de los hornos torna a Pesaro dopo quarant’anni a celebrare il quarantennale del Sessantotto. Un tuffo nel passato? Al contrario: uno sguardo lucido e quanto mai disincantato sul presente.
Rivedere il film oggi, o vederlo per la prima volta, è un’esperienza a suo modo sconvolgente.
La hora de los hornos non ha perso, con l’età, una briciola del suo fascino. La sue immagini non poco usurate, il bianco e nero pieno di graffi, le legature che saltano inaspettatamente (è successo l’altro giorno all’inizio della proiezione della prima parte) rivendicano tutte le rughe di una copia che è vecchia nel corpo, mai nello spirito. Restituiscono all’esperienza della proiezione quel non so che di materico, quel sapore di pellicola, quell’odore di cabina di proiezione di cui ci stiamo un po’ dimenticando ora che monta l’onda del digitale a ricondurre tutti i film su supporti come dischi o videotapes.
E’ esperienza estetica che conquista e fa esaltare. Certo non è l’esaltazione che si respirò il giorno della sua prima proiezione, quando il pubblico concluse la visione lanciandosi in una manifestazione di piazza, spontanea e calorosa, portando in trionfo gli autori del film, ma è un’esaltazione più calda e ammantata di un pizzico di nostalgia.
Allora era il tempo dei grandi movimenti, allora si viveva nella precisa cognizione che c’era un sistema contro cui combattere e solo la massa poteva farlo nel modo più giusto. Era ancora il tempo in cui ci si riuniva in gruppi e la protesta sorgeva spontanea, trasformandosi in slogan da urlare contro i palazzi del governo. Soprattutto allora c’era la percezione che il potere era nelle mani di pochi e la protesta doveva passare per le voci di molti.
Oggi la situazione si è decisamente ribaltata: essere schierati è fenomeno elitario, sentire il bisogno di protestare affinchè le cose cambino è esigenza sentita ormai solo da gruppi sparuti che hanno l’impressione di gridare nel deserto. Oggi la massa si è spostata a destra, i giovani vivono nel più totale disimpegno ripiegandosi nel gioco delle piccole storie d’amore da raccontarsi in televisione e chi protesta è fatalmente la minoranza.
Vedere oggi La hora de los hornos ed emozionarcisi significa riconoscersi in questa minoranza. Ieri, invece, il film era sulla bocca di tutti.
Passata, però, quest’onda nostalgica si deve riconoscere che il film, nella sua limpida tripartizione, nella lucidità con cui espone, con mai sopita passione, le sue argomentazioni, è incredibilmente giovane. Tra tutti i film presentati quest’anno alla quarantaquattresima edizione del Nuovo Cinema di Pesaro, La hora de los hornos ci sembra paradossalamente, il più nuovo. Ed è tale perchè la sua estetica si sposa così limpidamente con la sua etica da generare un vero e proprio miracolo di senso. Si sente che il linguaggio che parla deriva dall’urgenza del proprio stesso contenuto, che il significato condiziona e detta regole al suo stesso significante. Si sente che il bisogno di parlare fa sì che la logica del film saggio (con la logica divisione in capitoli, con le parole che si affollano sullo schermo come segni grafici che devono sottolineare il senso delle idee) sia come proiettata in un caleidoscopio che la rifrange in stili e forme diversi. Così la prima parte (Neocolonialismo e violenza: tredici capitoli) assume le fattezze di un saggio argomentativo che deve spiegare al mondo cosa esattamente è il neocolonialismo e che forme assume nell’America Latina, la seconda (Azione per la liberazione: disivo a sua volta in due grandi macrosequenze) ha invece le forme del film agit-prop volto a scuotere la mente del pubblico con la sua limpida dissertazione sul peronismo allora ampiamente frainteso in contesto europeo, mentre la terza (Violenza e liberazione) centra il suo discorso sul tema della violenza e dimostra come essa, quando è universale e di massa, cessa di essere tale per ribaltarsi in senso di giustizia.
Il film è profondamente innovativo nello stile e dettò non poche regole sul modo di intendere il film di impegno civile. Utilizza per il suo scopo ogni possibile artificio: segni grafici, didascalie, musiche e rumori miscelati insieme in un unicuum di rara compatezza. Ci si sente dietro un’immensa cultura cinematografica che passa dalla conoscenza profonda del cinema muto (non solo sovietico) sino ad arrivare ai suoi contemporanei. C’è molta voice over che in parte dipende dalla logica argomentativa del lavoro ed in parte è legata a contingenze produttive (il film fu girato in 16 mm senza l’ausilio del nagra per la registrazione delle voci). Ma ci ritrovi sapienza di montaggio, senso del ritmo e un sapiente impiego di tutti i materiali di repertorio (da stralci di cinegiornale a pubblicità importate dall’imperialismo americano).
Se le cose di cui parla sono ormai affidate alla storia non così è il suo linguaggio ancora oggi fresco e forte.
Solanas lo riporta alla mostra con lo spirito indomito del giovane. In sala dice poco del film (qualche sporadica rievocazione di quando lo realizzò e di quando lo presentò a Pesaro), poi ci racconta dell’America Latina di oggi.
Il secondo motivo dell’attualità della proiezione di La hora de los hornos sta, in fondo, proprio qui: nel fatto che il regista racconta l’oggi rifiutando il tuffo nel passato. Ci dice la situazione argentina, ci racconta dei governi di sinistra nell’America Latina ci dice che oggi tutto è cambiato e che il neocolonialismo si è totalmente trasformato. Ma ci dice cose che non sappiamo perchè i nostri giornali dimenticano di raccontarlo, ci fa sentire il peso della nostra disinformazione, ci tira un pugno in pieno viso facendoci saggiare la nostra indifferenza.
Di questa lezione di vita non gli saremo mai grati abbastanza.


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