Pesaro 44 - Stadt des Lichts - Cinema Tedesco Contemporaneo

Anno 2008: un futuro vicino per una pellicola scritta e diretta nel 2005.
A seguito di una crisi economica e morale che ha segnato di fatto il declino dell’intero mondo occidentale, l’Europa è culturalmente regredita in uno stato di barbarie che ricorda da vicino quello del vecchio Far West. La popolazione, decimata dalle malattie e dalle carestie, è ridotta in sparuti gruppi che a stento sopravvivono. Gli uomini si uccidono l’un altro, mentre le donne, divenute una rarità, sono adorate e temute al tempo stesso. Sono diventate, a conti fatti, delle puttane sante, come nel titolo del vecchio capolavoro di Fassbinder (autore questo da cui i nuovi nomi del cinema tedesco sembrano aver imparato troppo poco).
In questa realtà da incubo, cinque criminali da strapazzo vengono ingaggiati, da alcuni cittadini desiderosi di avviare un’opera di ricostruzione, per rapire le poche donne rimaste e per portarle nella mitica Città della Luce (da cui il titolo del film).
Il viaggio si rivelerà lungo e non senza rischi.
Girato nello spazio di neanche cinque giorni e costato appena cinquecento euro, Stadt des Lichts resta il titolo più indefinibile della sezione dedicata al cinema tedesco contemporaneo di questa quarantaquattresima edizione del Festival di Pesaro.
Indefinibile soprattutto per via del suo continuo oscillare tra infinite polarità opposte di forma e contenuto, tra i tanti yin e yang che è possibile trovare al Cinema.
I primi due poli sono, ovviamente, quello maschile e quello femminile. Nel film gli uomini sono genericamente ricondotti alla loro essenza più giocosa e meno virile. Sono disegnati dalla regia come pistoleri da teatro dei pupi le cui azioni sfuggono a dettati prettamente razionali. Le donne, viceversa, sono figure arcane, indefinibili, incredibilmente sfuggenti nel loro incarnare contemporaneamente la fisicità estrema del sesso (esercitano, di fatto, la professione di prostitute) e la spiritualità della speranza, la spinta, che si portano dentro, verso nuove possibilità di futuro.
I due universi sembrano essersi fatti, col tempo, definitivamente impermeabili l’uno rispetto all’altro. E l’assenza di bambini, nell’universo concentrazionario del più claustrofobico dei film di viaggio visti quest’anno a Pesaro, sembrerebbe certificare ulteriormente questa separazione in atto.
Se la donna è diventata, per l’uomo, oggetto da temere e desiderare al tempo stesso, per la donna, invece, l’uomo si è fatto figura senza una specifica identità e, soprattutto, senza quegli attributi che sappiano ancora certificarne la virilità. Nei racconti che le prostitute si narrano l’un l’altra per ingannare il tempo e che si fanno per noi oggetto di visione, anche gli uomini sono, infatti, interpretati da attrici en travestì. Una scelta di regia, questa, che certifica ulteriormente come l’universo femminile si sia, di fatto chiuso in se stesso, e sembri quasi poter fare a meno della componente maschile.
Ci sono poi i poli di voce ed immagine che sono tra loro non meno impermeabili. Il film è, da questo punto di vista, abilmente diviso in due parti assolutamente distinte.
Da una parte c’è la voce della narratrice (non a caso una donna, per sottolineare ulteriormente la dimensione sessista di cui parlavamo prima) che evoca per noi le immagini del futuro del film e, spesso, è sovrapposta ad esse.
Dall’altra ci sono le immagini del racconto che sono, ovviamente, del tutto prive di voci (l’universo sonoro è tutto occupato da musiche e rumori). Il futuro è un film muto, come muti sono anche i racconti delle prostitute che hanno in più, oltretutto, le didascalie e il ritmo dello slpastick.
Di qui i due poli di futuro e passato che si sovrappongono in contraddizioni sempre più feconde con quel futuro che è raccontato quasi si fosse dentro un film muto, con quei costumi da film western che prendono il posto di quelle tute in lattice che ci saremo aspettati all’interno di un film di anticipazione. Il risultato di tutte queste oscilazzione è la costante operazione di ibridazione dei generi che vanno dalla fantascienza autoriale alla Tarkovski al gioco delle comiche del muto, dal road movie alla Wenders sino al classico racconto di frontiera di stampo americano.
Ci sono, infine, i poli dei riferimenti culturali. Il film nasce come un B-movie americano degli anni ’50 con pochi soldi e tanta voglia di cinema. Epperò è un prodotto assolutamente tedesco nello spirito e nella voglia di un enterteinment che non è puro come quello americano, si muove in tempi lenti, cerca la meditazione.
E’ un prodotto che prende di suo elementi della storia americana e li trasporta in terra tedesca. Ma è anche un modo di raccontare tedesco che si addentra nelle contrade del genere americano per eccellenza.
Nella sua durata minimale (appena un’ora di antikolossal), Stadt des Lichts trova il suo fascino, ma anche il suo punto più debole in questa continua oscillazione. Ha l’aura del film d’autore, ma anche la fruibilità di una installazione di videoarte. Lo puoi vedere in sala, ma anche in un museo e, quindi, non trova naturale collocazione in nessuno dei due.
Il suo digitale è freddo e spesso inventivo. Ma non sai dire quanto questo film sia davvero destinato a restare.
(Stadt del Lichts); Regia: Volker Sattel e Mario Mentrup; sceneggiatura: Mario Mentrup; fotografia e montaggio: Volker Sattel; musica: Patric Catani; interpreti: Angie Reed, Claudia Basrawi, Burak Yigit, Chloe Griffin, Rainer Knepperges, Pascale Schiller, Stephan Greene, Peaches; produzione: Vakant Film; origine: Germania, 2005; durata: 60’
