Pesaro 44 - Tavola rotonda sul Cinema Tedesco Contemporaneo

Se dovessimo cercare una metafora capace di condensare il senso di tutto il Cinema Tedesco Contemporaneo, quella che si sembra più calzante, quella che meglio potrebbe contenere le contraddizioni e il senso di tutta un’esperienza è l’immagine di una bella tazza di capuccino freddo con dentro un buon cubetto di latte ghiacciato.
Il ghiaccio è la compattezza strana ed antica della Scuola di Berlino: un luogo di incontro, di franco dibattito tra autori che si riconoscono, pur nelle reciproche differenze, sotto una bandiera unificante. Si tratta, certo, non di una scuola nel senso tradizionale del termine, ma di un gruppo di autori che portano avanti un cinema caratterizzato da linee guida chiare e da non poche comunanze di intenti anche e soprattutto a livello politico. Sono, in fondo, a pensarci bene, una retroguardia, un piccolo retaggio del passato, di un tempo in cui lavorare insieme era l’unico modo per rendersi riconoscibili (e quindi vendibili) tanto in patria come all’estero. Il loro è un cinema antinarrativo, profondamente autoriale. Flirta poco con il mercato, punta alla pellicola ed alla grande distribuzione, ma si accontenta, alla fine, di una sua patente elitaria. Se non altro, è un insieme che sogna ancora in grande.
Si conoscono tutti, gli autori di questa scuola, ed hanno in comune l’appartenenza ad una grande città. Alcuni di loro vivono addirittura nello stesso quartiere, frequentano gli stessi locali, escono fuori a cena tra un film e l’altro e si confrontano. Sono il modello di un Cinema del passato, fondato sul dibattito e la reciproca collaborazione, che però è presente e vivo.
Il cappuccino, nella sua schiuma vaporosa, è, invece, tutto il resto del Cinema Tedesco. Un Cinema che nasce nelle scuole e negli Istituti (sono tanti in Germania, ma manca una vera Scuola Nazionale, manca il corrispettivo teutonico del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma) e che spesso resta lì, ancorato alle sole opere prime e ai saggi di diploma. E’ un cinema di autori che non si conoscono e non si riconoscono. Ognuno fa esperienza per sè e il confronto ed il dibattito li vedono come antiquati e non necessari. Dei registi presenti alla Tavola rotonda tenutasi ieri a Pesaro, nessuno conosceva l’altro, si incontravano tutti per la prima volta e l’unica cosa che avevano in comune erano il moderatore, Giovanni Spagnoletti, e la conoscenza di quel critico che tanto fortemente aveva lavorato alla retrospettiva ospitata nel Festival, Olaf Muller.
A pensarci sono loro il caffè di quel cappuccino che abbiamo bevuto ieri mattina, il sapore che fa da collante tra il latte e il ghiaccio.
E’ strana, comunque, l’immagine che ricaviamo, dall’incontro, di questo Nuovissimo Cinema Tedesco. E’ l’immagine giovane e decentrata di un cinema votato all’individualismo più spinto.
Non riconoscono fratelli, gli autori presenti in Tavola Rotonda. Si guardano negli occhi, con sorriso di complicità e si dicono che, al massimo, possono essere lontani cugini. Forse perchè, in fondo, non vogliono neanche riconoscere dei padri, rivendicare un loro preciso passato, un maestro.
A chieder loro se hanno punti di riferimento in fatto di cinema ti dicono, con un’alazata di spalle che ce ne sono tanti e, in fondo, nessuno. Snocciolano qualche nome e ti sorprende che nessuno di loro sia tedesco. Herzog viene nominato quasi per caso, come fosse (e del resto è) una meteora strana ed indefinibile. Wenders è un nome che affiora più nel pubblico presente in sala (che ha visto, tra l’altro fin troppe pellicole presentate in Mostra sul tema del viaggio) che tra gli autori che sembrano considerarlo quasi qualcosa di cui vergognarsi. Spunta fuori anche un Fassbinder, ma di solo di sfuggita.
Se la generazione precedente era letteralmente ossessionata dal proprio passato culturale, dal bisogno di definire dei padri anche per capire cosa potesse voler dire essere tedesco nel mondo a loro contemporaneo, questa nuova generazione, figlia di un mondo già abbondantemente globalizzato, punta di più ad un universalismo assai generico.
Non si pongono il problema di cosa possa significare essere tedeschi, la danno come condizione innata. Sono figli del nuovo millennio e l’orrore dei campi di concentramento e del nazismo, per vederli, bisogna svoltare di un secolo all’indietro.
Per loro il concetto di Heimat è superato, romantico, buono solo per le opere monumentali di Edgar Reitz. La qual cosa, in fondo, è un bene: ci hanno messo decenni per lasciarsi alle spalle questo retaggio che era anche una delle radici del nazismo.
Epperò il loro modo di relazionarsi al cinema ha un sapore un po’ troppo generico. Sembra quasi figlio di un disimpegno che va ad urtare con la cupezza eccessiva delle opere presentate in sala.
Perchè son così tristi le pellicole tedesche? Perchè così figlie di una visione della vita votata alla tragedia?
Domanda sotterranea nella tavola rotonda, che nessuno ha fatto perchè, a pensarci, sembra più il risultato di un atteggiamento che di una vera visione della vita. Sembra quasi che i registi presenti in sala, tutti giovani, pensino che per essere autori, bisogna a tutti i costi essere profondi e quindi tristi.
Una scelta che distacca alla fine il cinema anche dal formato televisivo (cosa che succedeva, a pensarci, già in Fassbinder). E la televisione è l’ultima grande incognita di questo nuovo cinema. Quanto influenza, quanto entra nel processo creativo della realizzazione di un film?
Poco a sentir loro. Si sanno storie di produzione televisive che sono entrate nei progetti già in fase di sceneggiatura. Ma non è successo ai registi presenti in sala.
Quanto TV e nuovi media entrino nel cinema tedesco di oggi resta, dunque, ancora tutto da capire.
