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Pesaro 44 - The Prisoner/Terrorist - Bande à part

Pubblicato il 24 giugno 2008 da Alessandro Izzi


Pesaro 44 - The Prisoner/Terrorist - Bande à part

Per comprendere un film come The Prisoner/Terrorist bisogna lasciarsi alle spalle il pesante fardello ideologico che aggrava le nostra coscienze non appena viene pronunciata la parola terrorista. Bisogna lavare gli occhi dal ricordo delle tragedie dell’11 settembre, degli attentati in Spagna, delle paure che ci hanno attanagliato e ci attanagliano tuttora e che ancora sono impresse nelle nostre retine e nelle nostre coscienze, e guardare il film con occhio vergine, non compromesso.
Bisogna vedere il film con gli occhi della mente ben aperti e con quelli di certa memoria ben chiusi.
Bisogna lasciarsi alle spalle il baluginio di pixels dei TG, le immagini ancor terribili eppure così incredibilmente usurate delle Torri gemelle che crollano e porsi nella posizione di chi vuole capire, di chi vuole andare oltre i meri dati di fatto.
Bisogna togliersi dalla faccia i paraocchi dell’ideologia ai quali ci siamo anche troppo abituati e pensare con una visuale più ampia.
Soprattutto bisogna dimenticare che il film nasce a ridosso di un attentato che si è realmente consumato una trentina di anni fa e che ancora atterisce le coscienze dei giapponesi: un attacco suicida portato avanti da tre integralisti di cui solo uno sopravvisuto a causa del malfunzionamento della bomba a mano che avrebbe dovuto porre fine alla sua vita e al suo atto scellerato.
Non è operazione facile, quella che Masao Adachi chiede al suo pubblico. Non è facile per i giapponesi che ancora piangono sulle lapidi da cui è impossibile riuscire a lavare il troppo sangue versato. Non è facile per noi che siamo, in fondo, il bersaglio più facile, più immediato di altri terroristi.
Solo dopo aver operato questa epurazione dello sguardo diventa davvero possibile guardare il film scavalcando il mero dato oggettivo.
Solo allora diventa possibile rendersi conto che il regista non vuole semplicemente raccontare la storia di un attentato terroristico, nè farci fraternizzare con quello che non possiamo non considerare come il nemico, ma vuole portare avanti un discorso più grande, più universale, più complesso.

Del resto già il titolo avrebbe dovuto mettarci in guardia contro questa lettura che ci affiora nella mente con la stessa immediatezza perversa di un riflesso involontario. The Prisoner/Terrorist pone, infatti, l’attenzione più sulla condizione esistenziale del prigioniero che su quella del puro e semplice terrorista.
Masao Adachi vuole realizzare un’opera in cui la prigionia diventa prima di tutto una condizione esistenziale universale.
Certo potrebbe sembrare, dalla visione del film, soprattutto quando la macchina da presa decide di obbligarci alla visione delle torture (visione ai limiti del sostenibile per lo spettatore in sala), che il film si ponga nei confronti della storia, in una dimensione di facile demagogia. Si potrebbe, addirittura pensare, che il regista stia mettendo sui due piatti della bilancia da una parte l’azione atroce del protagonista e, dall’altra, quella non meno terribile dei suoi carcerieri ed aguzzini chiedendoci di decidere quale delle due pesa di più. Ma anche questa è solo la superficie. Masao Adachi vuole andare oltre.
Perchè quella gabbia nella quale viene rinchiuso il protagonista al buio e per giorni, quelle catene che lo legano al suolo e gli impediscono i movimenti obbligandolo nella più scomoda e dolorosa delle posizioni, quel cibo e quell’acqua che gli vengono mostrati solo per essergli negati sono il segno non di eventi precisi, ma gli estremi di una più vasta metafora sull’orrore della privazione della libertà e sull’abbruttimento della coscienza che ad essa consegue.

The Prisoner/Terrorist si pone, così, nel solco dei grandi capolavori sull’abbruttimento dell’uomo, sul suo lento ed inesorabile degenerare nella più bestiale delle condizioni quando gli si nega la visione del cielo e lo si relega nelle fogne del nostro rimosso collettivo.
Si accavallano, durante la visione del film, i ricordi di Il pozzo e il pendolo di Poe (e nessuno si sognerebbe oggi di dire che quello era un racconto contro l’Inquisizione spagnola) o quelli delle pagine ancor più crudeli di La torture par l’esperance di Villiers de l’Isle-Adam (con cui il film condivide la scena terribile del sogno di liberazione, quando il protagonista trova la porta della cella aperta e nessuna guardia intorno ed assapora per un breve momento l’idea di una corsa lungo una strada aperta). Soprattutto vengono in mente le note musicali del breve atto unico che Dallapiccola compose sul libretto tratto proprio dal racconto di de l’Isle-Adam: un’opera simbolica che inquadra la prigionia come abbruttimento dello spirito e come condizione esistenziale. E si pensa a Kafka, all’uomo che si trasforma in scarafaggio (nel film è un cane), all’orrore di una burocrazia che sa essere crudele nel suo anonimato e nella sua impersonalità.
Una prigionia che, in fondo, non serve a nulla come dimostrerebbe il finale terribile della pellicola con l’uscita di prigione del terrorista che, nel cuore, è rimasto tale pur nell’incessante confronto con gli spettri della propria coscienza e l’orrore delle proprie stesse azioni di cui non è pentito.

Ci sono scene di terribile bellezza in The prisoner/Terrorist, scene in cui la tortura del personaggio diventa tortura anche per lo spettatore in sala. Momenti di etica della messa in immagine dell’orrore che vanno al di là dei discorsi preconfezionati con cui si riempiono la bocca i sostenitori del rendition act. Basterebbe anche solo la sequenza del gocciolio d’acqua sulla testa del personaggio (kafkianamente noto per la sola iniziale del suo nome: M.) a farci dire che siamo di fronte ad un gran film.
Ma poi tornano in mente le tragedie dell’11 settembre, l’orrore degli attentati suicidi in Palestina e ci sorprende il pensiero che è decisamente troppo presto per un film come questo.
Tra qualche decennio, chissà, lo si potrà, forse, guardare con occhio più sincero...


CAST & CREDITS

(Yûheisha - Terorisuto); Regia e sceneggiatura: Masao Adachi; fotografia: Nagata Yuichi; montaggio: Yuji Oshige; musica: Yoshihide Otomo; interpreti: Tomorowo Taguchi, Taka Okubo, Jyoji Kajiwara, Shoichi Honda, Hiroshi Yamamoto; produzione: Slow-Learner Inc.; vendite internazionali: Slow-Learner Inc.; origine: Giappone, 2007; durata: 113’


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