Pesaro 44 - Vasermil - PNC

Di racconti di Calcio ed Amicizia è piena la storia ancor breve del Cinema. Di episodi gratificanti che vedono il gioco del pallone come un collante capace, attraverso l’arcano della passione e dello spirito di squadra, di superare ogni divisione razziale o più semplicemente caratteriale, è pieno anche il paniere di idee dal quale attingiamo ogni giorno le buone intenzioni con le quali ci illudiamo di poter vivere con qualche complesso di colpa in meno.
E ci piace, la sera, quando non ci sono partite di calcio a catalizzare la nostra attenzione e a riempire i palinsesti delle programmazioni televisive, crogiolarci un paio d’ore con questi film che ci dipingono, con la tempera e gli olii delle emozioni più trascinanti, un mondo, come il nostro, che, per quanto buio, può comunque ancora essere illuminato dalla viva luce di un gesto atletico bello finchè gratuito e pulito.
A stento ci accorgiamo che la maggior parte di queste storie sportive, nel loro essere niente più che piccole epiche di riscatto individuale, raccontano più la persona che la società in cui questa è costretta a vivere.
Il vero centro poetico, la ragion d’essere di queste opere, infatti, sta tutta nella descrizione a tinte forti del trionfo dell’individuo (al più della squadra) contro ogni avversità. La loro è l’estetica del bildungsroman, del racconto esemplare da cui tutti dobbiamo imparare e nel quale siamo sempre chiamati ad immedesimarci: storie in cui il singolo riesce sempre a trionfare sulle avversità che si frappongono tra lui e la sua meta e a costruirsi un presente ed un futuro che non possono non essere migliori di quel passato da cui si proviene.
Sono, insomma, racconti di un malessere individuale che solo il calcio (ma potete mettere al suo posto qualsiasi altro sport o passione) può e riesce davvero a superare. Anzi, il lieto fine, obbligatorio in operazioni di questa fatta, certifica in primis che c’è al fondo una distinzione tra malessere individuale e malessere sociale e che la società che fa da sfondo a queste storie buone per tutte le stagioni è, sì, malata, ma non poi tanto se è ancora in grado di produrre, attraverso le partite, le finali, i momenti di sano agonismo, quegli anticorpi che sono necessari alla salvezza dei singoli.
Alla fine tutto resta com’era prima. Anzi migliora e non c’è niente di più appagante per lo spettatore che vedere un ragazzo diventare uomo, contro ogni pronostico e ogni aspettativa.
Vasermil, film che ha aperto le danze della sezione competitiva del Concorso internazionale di questa quarantaquattresima edizione del Festival del Nuovo Cinema di Pesaro, è la limpida negazione di questo assurto apparentemente incontrovertibile.
Il film, che sembra prendere le mosse dal più classico dei racconti di formazione, arriva, anzi, a contraddire in tutti i modi possibili gli esiti di questo genere di film che la nostra cattiva abitudine ha incanalato definitivamente nel girone infernale del banale e dello scontato.
Le premesse del film edificante ci sono tutte e sono rispettate fino in fondo a partire dalla precisa descrizione delle vite non facili dei vari protagonista della pellicola.
Dima è un immigrato russo con padre disoccupato e madre lavoratrice. Sfoga la sua rabbia repressa in continue risse, frequenta ambienti di piccola delinquenza e, quando può, si dà al piccolo spaccio di droga nella scuola per arrotondare il non certo alto stipendio della madre. Il suo è il perfetto prototipo del ritratto del teppistello che gli basterebbe un’occasione per salvarsi dalla catastrofe che lo aspetta dietro l’angolo. Non ama il calcio, ma è costretto ad entrare nella squadra scolastica per evitare l’espulsione.
Shlomi consegna pizze a domicilio e vive una situazione familiare non meno problematica. Gli rubano persino il motorino con cui fa le consegne e, quasi si fosse dalle parti di Ladri di biciclette, alla perdita del veicolo corrisponde un licenziamento tanto feroce quanto, al fondo, ingiustificato. In cerca di vendetta si impelaga in situazioni via via peggiori da cui diventa sempre più difficile uscire.
Adiel, di origine etiope, ha la madre malate e deve occuparsi del fratellino anche se non riesce a fare a meno di sognare di entrare in un colleggio sportivo, come calciatore professionista che, certo, non di diverte più sul campo, ma ha un futuro e uno stipendio assicurati.
I tre giocano nella squadra della scuola ricoprendo rispettivamente i ruoli di portiere, capitano ed attaccante e all’inizio per tutti e tre il calcio rappresenta, senza particolari enfasi o pesanti sottolineature di regia, una possibilità di fuga, la concreta strada per un affrancamento personale ed esistenziale.
Ma quale affrancamento può dirsi davvero possibile se si vive all’interno di una realtà, come quella israeliana, in cui la pur auspicata convivenza di razze e credi diversi non riesce a non risolversi in violenza e conflitto?
Vasermil risponde a questa domanda con la lucida descrizione si un mondo in cui neanche una finale di calcio riesce davvero a fare la differenza.
Tragedia di destini che si sfiorano senza speranza di salvezza, la pellicola israeliana brilla di una luce tutta sua. Attraverso uno stile estremamente concitato, tutto appoggiato sull’impiego invasivo della macchina a mano, il film ha il sapore della dolorosa presa d’atto di chi ha cercato, anelato, desiderato davvero riprendere la verità.
Un buon inizio Festival, sapientemente calato nello spirito e nel clima degli Europei di calcio tuttora in corso.
(Vasermil); Regia e sceneggiatura: Mushon Salmona; fotografia: Ram Shweky; montaggio: Reut Hahn; musica: Haim Frank Ilfman; interpreti: Nadir Eldad, David Teplitzky, Adiel Zamro; produzione: Transfax Film Production; vendite internazionali: Transfax Film Production; origine: Israele, 2007; durata: 90’
