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Pesaro 45 - A history of Israelian cinema - Cinema israeliano

Pubblicato il 23 giugno 2009 da Alessandro Izzi


Pesaro 45 - A history of Israelian cinema - Cinema israeliano

Cosa sappiamo realmente del cinema israeliano? Poco e niente sarebbe la risposta più scontata. Certo i Festival internazionali ci hanno abituato alla presenza di Amos Gitai, e certo Valzer con Bashir è stato, appena lo scorso anno, un caso eclatante ed inaspettato, ma si tratta di casi così isolati all’interno della nostra distribuzione che non viene neanche da pensare che possano essere la punta di un iceberg ben altrimenti problematico.
Con A history of Israelian cinema, documentario di quattro ore presentato in apertura della monumentale rassegna che il festival di Pesaro dedica al cinema israeliano, Raphael Nadjari tenta l’ardua impresa di far conosce all’estero la complessità di un’industria che solo recentemente è stata davvero in grado di addentrarsi nella complessità di una narrativa ancorata nel presente e nelle contraddizioni spesso insanabili del conflitto palestenise.
L’opera ha un chiaro impianto didattico, costruito su una limpida successione cronologica di opere ed autori. Si parte quindi dall’inizio del cinema sionista, quando le opere erano improntato su un modello propagnadista debitore del modello sovietico (pellicole in cui l’ebreo assumeva la sua identità personale solo nel momento in cui si confrntava con la terra promessa alla quale faceva ritorno dopo un lungo e tormentato peregrinare) e si prosegue tranquillamente ed inesorabilmente verso l’oggi.
In effetti forse il grande problema del cinema israeliano delle origini sta tutto proprio nella sua dichiarata matrice politico/religiosa. Una dimensione che sembra voler rompere i ponti con la tradizione reale (quella ancorata sulle discussioni filosofiche intorno alle Sacre scritture) e che punta sulla definizione di un nuovo modello di ebreo: un individuo che combatte per la sua realtà, che lavora, che desidera eccellere liberandosi dei modelli intellettuali che egli stesso ha contribuito a creare.
Una breve parentesi, questa stagione del cinema sionista, presto interrotta dagli orrori della seconda guerra mondiale che ben altre direzioni avrebbe fatto prendere ad un cinema ancora incapace a definirsi in maniera compiuta ed assolutamente originale. Anche se l’abominio della Shoah permise agli israeliani di unirsi sotto l’egida di un’unica bandiera (e ad unirsi furono profughi europei e transfughi dell’est: etnie così diverse che si potrebbe parlare di multirazzialità sul modello americano), il cinema della terra di David stentava a trovare una propria identià personale, mantenendosi nel solco della pensosità europea o ricercando una forma di intrattenimento senza complicazioni sull’onda del sempre vicente modello americano (l’unico che riuscisse anche lì a riempire le sale). Così diviso, il cinema israeliano attraversò gli anni ’60 e ’70 imparando gradualmente ad entrare in contatto con il mondo arabo dapprima guardato con ansia e paura, poi con sempre maggior voglia di comprendere ed infine quasi con simpatia e compartecipazione. Nei casi più eclatanti, anzi, si cominciò ad avverare una vera e propria inversione dei ruoli secondo la quale erano gli arabi i veri padroni del territorio e l’ebreo altro non era che l’alieno piovuto dal cielo. La scoperta dell’alterità del mondo arabo è sicuramente l’aspetto necessario di una doverosa affermazione di una narrativa ebro/palestinese: qui si abbandona la propaganda dell’eroe d’azione cara al cinema sionista e ci si addentra in una visione del mondo contemporaneo in tutte le sue contraddizioni. Soprattutto si afferma un’identità nazionale capace di affrontare il tema della diversità (intesa non solo a livello culturale o religioso, ma anche in termini più spiccaimente sessuali) in una pospettiva nuova. Anche se la politica pare abbandonare tutto il cinema israeliano degli anni ’90, nondimeno comincia ad affollarsi sullo schermo un novero di pellicole che compongono un’epica del quotidiano con una più spiccata attenzione all’universo femminile (una novità assoluta all’interno di una realtà oltremodo maschilista) e alle storie piccole e venate di discreto realismo. Così si arriva ai giorni nostri con un’industria che è stata finalmente capace di trovare un’identità personale caoace di confrontarsi paritariamente con altre cinematografie.
Il modello del documentario è classico: interviste e molti spezzoni di film. Il racconto avanza interessante e denso di spunti, ma ha il difetto di restare troppo ancorato ad una divisione didattica. La successione degli anni è inesorabile, ma si ha l’impressione che lo studio sopravanzi le ragioni del cuore. A history of Israelian cinema è opera importante, ma poco appassionata. Un saggio di cinema che si accende di luce propria solo in alcuni momenti (la divertente analisi del primo film sinoista, i toccanti momenti del finale) e che rischia di diventare per chi non sa nulla di questo cinema una inesauribile galleria di titoli e date.


CAST & CREDITS

(Historia shel H’akolnoa Ha’Israeli); Regia: Raphael Nadjari; fotografia: Frederic Lefebvre; montaggio: Sean Foley; produzione: Zadig production; origine: Francia, Israele 2009; durata: 208’


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