X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Pesaro 45 - Addio del passato: Incontro con Marco Bellocchio

Pubblicato il 29 giugno 2009 da Alessandro Izzi


Pesaro 45 - Addio del passato: Incontro con Marco Bellocchio

Addio al passato. Addio ad un mondo non troppo lontano in cui il nome di Verdi non era semplicemente, come di fatto è oggi, quello di un grande compositore conosciuto da tutti e per tutti sconosciuto; addio ad un mondo, wendersianamente così lontano eppure così vicino, in cui la gente semplice (e non solo una stanca elite acculturata) canticchiava agli angoli di strada brani di romanze immortali, col cuore nella voce, incapace ad abituarsi a quelle arcane melodie.
Ma anche un film sulla Musica (esempio più unico che raro qui in Italia), sul suo potere comunicativo ed emozionale, sulla sua aerea e magica capacità di diffondersi ovunque, di apririsi squarci inaspettati nella confusione di suoni del mondo contemporaneo, in cui però sempre più rischia sempre di ricadere, inascoltata.
Questo in brevissima sintesi il tema dell’ultimo lavoro di Marco Bellocchio che, dopo essere stato presentato nella sezione Nuovi Territori della Mostra del Cinema di Venezia del 2002, torna ora qui a Pesaro come preludio ad un incontro con pubblico in occasione del premio alla carriera conferitogli dal Festival. Un film che si muove sull’onda suggestiva e poetica della memoria, nella consapevolezza, spesso molto dolorosa, di quanto le cose stiano irrimediabilmente cambiando.
Con sguardo lucido e partecipe, il regista disegna un quadro veritiero del mondo contemporaneo. Ci riesce ricorrendo ad un abile mescolanza di realtà e di finzione, lasciandosi costantemente trascinare dall’onda emotiva delle note verdiane che sono tanto la fonte d’ispirazione, quanto la luminosa scia che guida il cammino di tutto il lavoro.
Il fascino sottile del film risiede, principalmente, nella sua capacità di mescolare abilmente diversi segmente narrativi uniti tra loro proprio mediante il filo conduttore (teatrale, ma, al tempo stesso assolutamente cinematografico) della musica de “La Traviata” verdiana.
Messi insieme troviamo, quindi, sia ricostruzioni realistiche (ma finzionali) della vita quotidiana di alcuni personaggi che hanno a che fare con l’opera, sia scene desunte da recital e messe in scena operistiche sia, in ultimo, tranche di veri e propri documentari con tanto di interviste. La parte finzionale comprende vari blocchi narrativi. Nel primo assistiamo al provino di una giovane cantante (appena quindicenne) per un posto in conservatorio. Una ragazza strana, di quelle che è sempre più difficile incontrare per strada, sinceramente innamorata della musica e desiderosa di poterne produrre a sua volta. Una giovane che ha asoltato così tante volte l’opera di Verdi da averla imparata a memoria e da essere in grado di cantarla nota per nota quasi l’avesse lungamente studiata su una partitura. La sua è una passione del passato, una di quegli ardori romantici (o se preferite di quelle piccole cose di pessimo gusto) che la volgarità dei tempi nuovi sembra aver cancellato del tutto. Nel secondo siamo, invece, all’interno di un circolo dove una donna e un uomo cantano, accompagnati dal coro degli astanti, gli stessi brani dell’opera. Un altro mondo destinato ad una rapida scomparsa sottolineata anche dal fatto che la maggior parte delle persone presenti è anziana e quindi esponente di una generazione che viveva l’opera come una sorta di seconda irrunciabile natura.
La parte documentaria incastra, invece, brevi interviste al circolo di amanti della lirica della città di Piacenza con l’analisi della partitura verdiana da parte di uno studioso che ne esegue alcuni frammenti al pianoforte.
I due elementi sono abilmente montati in parallelo con le esecuzioni teatrali determinado un ritmo narrativo di incredibile suggestione musicale.
Bellocchio evita accuratamente scontri manichei tra il passato e il presente (o futuro) e compone una splendida elegia di un tempo che fu e che sempre più pare destinato a dissolversi nel nulla. Un’opera di straordinaria concentrazione, di leggerezza mozartiana ed incredibilmente carica di emozioni. Una sprazzo di luce, finalmente, in un festival che sembrava destinato a regalarne poca.

Nel successivo incontro col pubblico sono molti i temi messi sul tavolo della discussione. Il regista, nel ripercorrere le tappe salienti della sua carriera registica, sottolinea la dimensione inconsciamente melodrammatica di molti suoi lavori. La grande musica lirica ha, di fatto, secondo le sue stesse parole, influenzato notevolmente il suo modo di narrare, soprattutto a livello strutturale e in senso drammaturgico.
Del resto nel suo cinema a contare prima di tutto è la componente visiva, mentre, per quel che riguarda la scelta delle musiche, il lavoro viene svolto prevalentemente a livello intuitivo, spesso accogliendo i suggerimenti degli attori o dei collaboratori più fidati.
Bellocchio arriva da un cinema in cui il film veniva girato e montato prima dell’arrivo del compositore. L’autore della colonna sonora doveva operare su un corpo narrativo già formato e il suo lavoro doveva accettare i limiti di un’inquadratura già data. Anche se le nuove tecnologie consentono, ora, al regista di lavorare sulla musica già in fase di montaggio, quel tipo di approccio gli è rimasto, in certo senso, attaccato addosso. Di qui il fatto che sono pochi i casi (si pensi al canto armeno di L’ora di religione) nel suo cinema in cui la musica interviene come leitmotiv profondo, mentre il resto della sua produzione cerca una sorta di atematismo di gusto quasi sperimentale.
Un lungo applauso conclude uno dei momenti forti di questa quaranticinquesima edizione del Festival del Nuovo Cinema di Pesaro.


Enregistrer au format PDF