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Pesaro 45 - Children of the sun - Cinema Israeliano

Pubblicato il 24 giugno 2009 da Alessandro Izzi


Pesaro 45 - Children of the sun - Cinema Israeliano

Il Kibbutz è stata la più grande utopia collettiva della realtà sionista. Al suo interno bisognava, di fatto, costruire l’"uomo nuovo", l’ebreo che, fatta tabula rasa di tutte le incrostazioni del modello intellettuale tramandato per secoli, fosse concretamente capace di riportare al centro della sua stessa esistenza, la dimensione dell’agire, del muoversi, del proiettarsi davvero verso il futuro. Il Kibbutz era, di fatto, un collettivo orientato verso un’utopia socialista. Al suo interno l’individuo coi suoi desideri e coi suoi bisogni più concreti doveva sparire, farsi da parte in nome del bene comune. Scompariva anche il senso della famiglia e della proprietà. Tutti erano uguali, di fronte a Dio come di fronte ai propri simili, e nessuno doveva desiderare qualcosa di più. La comunità decideva, così, sulla base di termini astratti, quanto grandi dovessero essere le case e come dovessero essere arredate la stanze. Ad ogni unità famigliare venivano assegnate, nella migliore delle ipotesi, un televisore, un forno ed uno stereo per ascoltare le trasmissioni radiofoniche. I bambini stessi, una volta svezzati e diventati abbastanza grandi per camminare e per parlare venivano condotti all’interno di strutture preposte alla loro educazione: ampi palazzoni con tanta terra intorno per fare esercizio, un’unica divisa uguale per tutti, bagni comuni (con docce da fare a turni regolari, maschi e femmine confusi, come fossero tutti fratelli di nascita) e anonimi refettori. In questi ambienti veniva loro insegnato che l’ideale è qualcosa di estremamente concreto e che solo collaborando tutti insieme può davvero essere messo in pratica.
In questi ambienti i bambini crescevano felici e al tempo stesso traumatizzati. Felici per la vita sana che era stata preparata per loro, in mezzo al verde e ad una collettività che credeva di soddisfare tutti i loro bisogni. Traumatizzati perchè il modello collettivo non poteva tener conto di tutte le diversità implicite in ogni bambino. Sicché la decenne con già un accenno di seno e le mestruazioni precoci doveva di fatto spogliarsi di fronte a bambini non ancora formati e subirne il conseguente scherno. E un alluce più grosso del normale ti stampava a vita, sulla fronte, un nomignolo odioso con quale dovevi imparare a convivere.
La crudeltà implicita di un sistema che vuol tutti uguali non sa scendere a patti con la realtà che ciò che ci rende davvero tali è la nostra implicita inconciliabile diversità e che ogni bimbo è un universo a se stante.
Questi piccoli cresciuti a pane ed ideale, divenuti adulti si sposavano e mettevano al mondo nuovi piccoli destinati alla stessa istituzione. Nessuno questionava sul perché e sul percome di certe scelte. Venivano date per scontate in nome dell’ideale comune. Anche se le mamme, tornate a casa dopo aver consegnato i loro figli al Kibbutz, non sapevano spiegarsi il senso di vuoto che le pervadeva.
L’utopica realtà socialista cominciò a franare non appena si decise che i bambini potevano essere educati dai loro stessi genitori. Era l’inizio della fine perché non si poteva pretendere che le case di chi aveva sei figli dovessero essere piccole come quelle di chi non aveva avuto la benedizione di un parto.
Oggi i Kibbutzin vivono nel doppio rimpianto: da una parte rimpiangono quella famiglia che non hanno mai potuto avere (magari sfogando sui nipoti quel desiderio genitoriale che non hanno potuto esprimere coi figli) dall’altra rimpiangono quel senso di famiglia allargata che il kibbutz aveva garantito loro.
Questa ambivalenza del sentimento viene resa da Ran Tal (regista del piccolo documentario Children of the sun) grazie ad un’accorta frattura percettiva tra immagini e suoni. Da una parte abbiamo, infatti, un accurato montaggio di immagini di repertorio (spesso super8 o materiali comunque in precarie condizioni frammisti ad immagini girate appostitamente, ma rese abilmente indisinguibili dalle prime), dall’altra suoni espressionisticamente montati in sincrono con l’immagine e le voices over di kibbutzin diventati ormai (tra questi anche i genitori dello stesso regista). I due piani scorrono tra loro paralleli e i pochi suoni montati in sincrono all’immagine (suoni di campane, la melodia di un flauto, il rumore secco di un albero che viene abattuto) lungi dal creare un senso di realistica continuità, esasperano l’impressione di una distanza incolmabile.
Il grande merito del documentario è quello di raccontare la sua storia con una malinconia a suo modo inspiegabile riuscendo a comunicare il senso di un doppio rimpianto: quello per il loro passato (per quanto doloroso esso possa essere stato) e quello per un passato che avrebbe potuto essere, ma non è mai stato. Figli di un ideale incompiuto i kibbutzin si portano addosso le stimmate di una condizione che non è nè carne, nè pesce. Il fallimento dell’ideale li ha resi residui di un sistema che non funziona più quasi fossero rullini fotografici obbligati a vivere in un mondo dove si fanno foto solo in digitale.
Alla domanda se si sentano davvero quell’uomo nuovo che il kibbutz voleva costruire ti rispondono solo con la considerazione che l’uomo lo puoi costruire solo in laboratorio. Magari mettendo insieme i geni umani e quelli della lattuga. Ecco loro testimoniano con la loro solo esistenza che l’uomo nuovo può essere tale solo se gli costruisci la pelle verde e comincia ad operare la fotosintesi clorofilliana.


CAST & CREDITS

(Yaldei Ha’shemesh); Regia: Ran Tal; sceneggiatura: Ran Tal, Ron Goldman; montaggio: Ron Goldman; musica: Avi Belelli; produzione: Lama; origine: Israele, 2007; durata: 70’


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