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Pesaro 45 - Close to home - Cinema Israeliano

Pubblicato il 26 giugno 2009 da Alessandro Izzi


Pesaro 45 - Close to home - Cinema Israeliano

La guerra e l’occupazione di Gerusalemme viste dal punto di vista delle donne: questo il senso di Close to home, opera di certo impatto emotivo presentata ieri a Pesaro nel contesto della Rassegna del Nuovo Cinema Israeliano.
Smadar e Mirit sono due ragazze poco più che diciottenni che prestano servizio nell’esercito. I loro caratteri sono assolutamente diversi ed apparentemente inconciliabili. Una energica e menefreghista, se ne va in giro dando l’impressione di non volerne sapere nulla dei problemi del mondo che la circonda, l’altra più timida ed impacciata vive nell’eterna preoccupazione di far male ed essere rimproverata dai superiori.
Le due reculte hanno un compito estremamente ingrato: controllare i documenti di tutti gli arabi che attraversano la porzione di città che è stata loro assegnata. Il lavoro serve a prevenire eventuali attentati terrorirstici, quindi l’attenzione va rivolta a tutte le persone che paiono sospette, ai pacchi e agli involti abbandonati incustoditi sugli autobus (che vanno sempre controllati), e alle donne che attraversano il confine e che potrebbero nascondere sotto gli ampi indumenti chissà quali ordigni.
Il compito è spiacevole soprattutto perchè obbliga le ragazze a fare i conti direttamente col malumore delle popolazioni arabe che mal tollerano il trattamente cui sono soggette. I lavoratori della città sono, infatti, stufi di dovere esibire tutte le mattine le loro carte d’identità, perdendo magari l’autobus per sottoporsi al controllo e rischiando, con questo, di perdere il loro già precario posto di lavoro. D’altro canto le donne perquisite sulla linea di confine sono stanche di doversi spogliare e di veder calpestata la loro digità ogni volta che devono entrare in città.
Le ragazze della compagnia delle due giovani protagoniste rispondono alla pressione psicologica imposta loro dal lavoro in modo assai incosciente: perdendosi nei vicoli della città, guardando le vetrine dei negozi, infilandosi dai parrucchieri per un taglio di capelli e cercando di non farsi sorprendere dai superiori che fanno quotidianamente la ronda nei quartieri per assicurarsi che tutto vada bene.
In questo quadro le due ragazze imparano faticosamente a conoscersi e finiscono per imparare l’una dall’altra diventando, non senza contraddizioni, amiche. Ma il mondo intorno preme e malgrado il loro lavoro di controllo, fatto spesso coi piedi e l’incoscienza di chi non comprende fino in fondo le implicazioni di certe scelte, le bombe continuano a passare e a farsi il loro carico di vittime.
Close to home riporta al centro del dibattito il punto di vista femminile sulle scelte politiche di Israele. La storia di amicizia tra le due ragazze, nata con fatica e capace di supoerare le reciproche inconmprensioni è la dimostrazione, in piccolo, che un dialogo è possibile anche laddove permangono differenze di carattere e cultura apparentemente insormonatbili. Colpisce la compartecipazione con la quale le due registe raccontano la loro storia esemplare. La macchina da presa segue le protagoniste con sguardo affettuoso e al tempo stesso oggettivo che cede alle lusinghe del simbolismo solo nell’ultima lunghissima inquadratura.
Il film è il racconto spassionato di un lavoro a suo modo atroce e una riflessione accorata sul senso di una democrazia che deve confrontarsi con le contraddizioni del suo stesso operato. Perché fino a che punto può dirsi veramente democratico uno stato dall’impostazione così militarista da portare i suoi soldati tra le vie allo scopo di prevenire degli attentati che hanno comunque luogo? E come è possibile che un lavoro venga assegnato a delle ragazze così inesperte e così ingenue nelle loro scelte?
Close to home evita ogni tinta eccessivamente drammatica e lascia nel proprio pubblico un mare di interrogativi destinati a rimanere senza soluzione. Peccato, allora, che la descrizione dell’insensatezza del lavoro di controllo non sia bilanciata da una visione più profonda di quella realtà araba che deve subire quotidianamente l’invasione della propria privacy e l’occupazione. La problematizzazione del discorso, infatti, risulta in qualche modo sminuita da questa visione parziale della realtà messa in scena.


CAST & CREDITS

(KAROVLA’BAIT); Regia e sceneggiatura: Dalia Hager, Vidi Bilu; fotografia: Yaron Scharf; montaggio: Joelle Alexis; musica: Yontan Bar Giora; interpreti: Naama Schendar (Mirit), Smadar Sayar (Smadar), Irit Suki (Dubek), Katia Zimbris (Yael); produzione: Transfax Film; distribuzione: Mikado; origine: Israele, 2005; durata: 90’


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