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Pesaro 45 - Frozen days - Cinema Israeliano

Pubblicato il 26 giugno 2009 da Alessandro Izzi


Pesaro 45 - Frozen days - Cinema Israeliano

Quello che colpisce immediatamente di Frozen days è il suo essere una palese anomalia all’interno dell’universo cinematografico israeliano. In un’industria fondata, infatti, prevalentemente su cronache familiari (spesso a sfondo drammatico), su film di genere bellico e su un certo numero di documentari che nascono per la sala e non per lo fruttamento televisivo, un thriller a sfondo psicologico deve brillare come una perla nera.
Ad essere particolare è anche la genesi del film: nato come lavoro di diploma all’interno dell’Università di Tel Aviv, il lavoro, che doveva probabilmente a tutta prima non superare i limiti del cortometraggio, si è sviluppato autonomamente sino ad assumere le fattezze di un vero e proprio lungometraggio di ricerca. Privo del sovvenzionamento del fondo nazionale per l’industria cinematografica, e mai passato al vaglio di una produzione "seria", il film è stato realizzato sulla base di un budget di appena venticinquemila dollari: una cifra veramente irrisoria se paragonata ai budget ben più sostanziosi non solo del resto della produzione israeliana, ma ben al di sotto di qualsiasi standard.
Pur se cresciuto oltre le intenzioni dei suoi stessi autori, il film, però, si porta attaccata addosso, come un’etichetta, la sua orgine accademica ed universitaria. L’opera, infatti, nata come personale omaggio allo stile di un regista come Polanski (di fatto lo schema narrativo è improntato su quello di L’inquilino del terzo piano) rivela fin dalla sequenza titoli (con una spirale grigia su fondo nero ed una musica di chiara matrice hermanniana) la sua dimensione di gioco cui meccanismo di un genere.
Frozen days non è altro che una serie di esercizi di stile, di divertimenti metacinematografici che si susseguono liberamente sulla superficie dello schermo senza mai andare oltre una dimensione ludica a metà tra l’omaggio commosso e la dimostrazione esibita di una raggiunta padronanza del mezzo espressivo (come è giusto che sia in un saggio di diploma).
Visto da questo punto di vista, il film è riuscito e di piacevole fattura. Il gioco del bianco e nero espressionista, la qualità della scelta delle inquadrature, la capacità di gestire il racconto (pur tra le abbondanti false piste che fanno parte, anch’esse del gioco) in un ritmo efficace governato da un montaggio sapientemente maniersita sono gli elementi che permetterebbero a qualsiasi insegnante di dire che la prova è abbondantemente superata. E che forse c’è anche lo spazio per una lode visto che qua e là, qualche sequenza strappa il grido del pubblico (l’arrivo delle esplosione della bomba è colpo di scena abilmente inserito).
Passata, però, l’ubriacatura per i risultati formali e goduta la riproposizione di uno schema narrativo abbondantemente noto, resta da dire, però, che Frozen days non va molto oltre questa dimensione di "film omaggio". Al contrario la piacevolezza della confezione finisce per far rimpiangere il fatto che essa non sia altro che un involucro destinato a contenere poco più che niente.
Il film che, come dicevamo prima, resta estraneo ai generi cinematografici tradizionali in voga a Israele, ci dice poco e nulla della realtà del paese che lo vede nascere. Ci dice poco della cultura israeliana (il film potrebbe prendere luogo in qualsiasi parte del globo senza che il discorso di fondo subisca particolari contraccolpi per il cambio di locazione geografica), ci dice poco della realtà politica del paese, ci dice poco anche della dimensione architettonica della città che ospita l’intreccio (una Tel Aviv quanto mai astratta e trasformata in mero set per un racconto). Persino l’attentato terroristico che è l’origine di tutto l’intreccio resta accidente puramente narrativo che ha ben poco appiglio con la realtà quotidiana di un mondo che quel genere di attentati se li vive sulla propria stanca pelle sin troppo spesso.
Insomma ci auguriamo che le prossime incursioni di questo regista nei territori pochi battuti in patria dei generi cinematografici sappia risolversi in qualcosa di più che un mero esercizio di stile. Perchè, indipendentemente da tutto, l’autore rivela doti di narratore non comuni. Dovrebbe solo metterle al servizio di un’idea.


CAST & CREDITS

(YAMIM KFUIM); Regia e sceneggiatura: Danny Lerner; fotografia: Ram Shweky; montaggio: Tal Keller; musica: Tomer Ran; interpreti: Anat Klausner (Meow), Uli Sternberg (Nahman), Sandra Sade (la vicina), Pini Tabger (Alex); produzione: DPI e Sonatine Films con Bleiberg Entertainment; origine: Israele, 2005; durata: 90’


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