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Pesaro 45 - Medicine for melancholy - PNC

Pubblicato il 26 giugno 2009 da Alessandro Izzi


Pesaro 45 - Medicine for melancholy - PNC

San Francisco oggi. Un uomo e una donna si risvegliano in un anonimo appartamento fotografato da un limpido bianco e nero digitale. Il risveglio, all’insegna del mutuo silenzio, si accompagna a gesti di usuale routine: lei si stropiccia gli occhi e si guarda intorno, gli occhi annebbiati dal mal di testa del doposbornia, lui trova in bagno un tubetto di dentifricio e comincia a lavarsi i denti con il dito. Il fatto è che quello non è il loro appartamento e questo non è il risveglio di una coppia fatta intima ed affiatata da una sia pur breve convivenza. I due giovani non si conoscono neanche: il giorno prima, alla festa nella quale si sono incontrati, non si sono detti neanche il nome. Ed ora i loro gesti son quelli d’imbarazzo di chi è costretto a vivere un momento di intimità con un perfetto sconosciuto. Lei vorrebbe scappar via veloce e dimenticare in fretta l’avventura di una notte, lui un po’ si attarda ed un po’ tergiversa perché in fondo quella ragazza gli piace per davvero. Vorrebbe conoscerla e farsi conoscere. Così comincia il percorso inverso e riflesso delle classiche storie d’amore: il corteggiamento viene dopo il sesso, la conoscenza reciproca, il fare colazione insieme, lo scoprire il passato l’uno dell’altra viene dopo la soddisfazione della carne.
Il problema, però, è che lei è già fidanzata. Ad un uomo bianco per di più. E quella notte ubriaca preferibbe rimuoverla, anche se l’insistenza dell’amante la diverte e la lusinga al tempo stesso. Così un po’ per volontà un po’ per caso galeotto (lei dimentica freudianamente il protafogli nel taxi che ha preso con lui), la notte insieme si prolunga per altre ventiquattro ore durante le quali i giovani si avventurano nei reciproci territori: passeggiano, vanno in bicicletta e poi al museo, chiacchierano e si scoprono, fanno ancora sesso e si preparano una cena, si fanno una canna e poi vanno, un poco fatti, a ballare in un night. Tra una tappa e l’altra di un corteggiamento il cui finale non può che essere una separazione senza melodramma, si aprono discussioni sui temi più disparati. Si parla del significato di far parte di una minoranza razziale (realtà che lui proletario pulitore di acquari sente sulla pelle mentre lei, figlia di una borghesia agiata non ha mai percepito per davvero). Ci si chiede il perchè lei donna di colore senta il bisogno di stare con un uomo bianco. Si parla, infine, della città che si attraversa, perduta in un disegno edilizio che non ha mai saputo tenere conto per davvero dei bisogni dei suoi abitanti più poveri e negletti. In giro si incontra varia umanità: collettivi di ragazzi che si accapigliano a parole sui progetti di ampliemento e sugli sfratti, afroamericani che svendono chissà che ai passanti: animali metropolitani che attraversano la strada.
In questo modo la storia di una città evidentemente amata dal regista, pur in tutte le sue contraddizioni, si intreccia al destino individuale. E i due personaggi che vivono la prosecuzione troppo breve di un’avventura di una notte smettono spesso i panni dei loro personaggi per farsi espressione di una società che non riesce ancora ad essere del tutto multietnica e in cui la discriminazione vige ancora come realtà fattuale innegabile.
La macchina da presa passa dal piano collettivo a quello personale col moto di un pendolo che accelera sempre al centro per rallentare e quasi fermarsi ai margini più estremi. Non trova il segreto e l’armonia dei suoi modelli che sembrano venir tutti dalla Nouvella Vague di Truffaut o del primissimo Godard. Anche il bianco e nero, che cede sul finale a qualche nota di colore, mima i paesaggi del cinema francese più grande senza mai sfiorarne l’insondabile profondità. Il fatto è che in Medicine for melancholy c’è troppo cervello e meno cuore. C’è il gioco degli omaggi di chi pensa al cinema del passato e cerca di applicare le formule della sua magia. Ma la soluzione ai vari teoremi è data prima ancora di aprire il quaderno dei compiti a casa. Il regista si avventura in una ricerca quando ha già in tasca la soluzione. E la voluta leggerezza della messa in scena è ostentata e quasi mai realmente raggiunta.
Forse perchè San Francisco non è Parigi. Forse perché una piccola storia d’amore negato in salsa americana avrebbe bisogno di un linguaggio diverso da quello di certo cinema europeo. O forse perchè, nelle intenzioni della sceneggiatura tutto quel che aveva sapore esistenziale nel cinema francese qui assume venature politiche che gli fanno perdere l’afflato universale.
Così la confezione accattivante del film non dispiace, ma neanche ti porta dentro all’immagine. E lo spettatore resta fuori, in superficie, a godersi il gioco degli attori senza che la vita vera faccia mai capolino oltre l’immagine.
Medicine for melancholy è un flm grazioso, ma resta sempre al di qua delle sue pur lodevoli intenzioni.


CAST & CREDITS

(Medicine for melancholy); Regia e sceneggiatura: Barry Jenkins; fotografia: James Laxton; montaggio: Nat Sanders; musica: Greg O’Bryant; interpreti: Wyatt Cenac (Micah), Tracey Heggins (Jo’); produzione: Strike Anywhere; origine: USA, 2008; durata: 87’


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