Pesaro 45 -Tehilim - Cinema Israeliano

Menachen ha diciassette anni e vive una vita serena con i propri genitori e il fratellino più piccolo, David. La sua vita è divisa tra una fidanzatina che ancora non trova il coraggio di prensentarlo ai genitori, la scuola nella quale gli vengono insegnate le discussioni filosofiche sul Talmud e le nottate con gli amici passate a fumicchiare e a bere birra tirando sino al mattino. Una vita proprio come tutte le altre, insomma. Non fosse per la kippa che indossa tutto il giorno e per le celebrazioni dello Shabbat potresti collocarla ovunque, in Europa come negli Stati Uniti d’America.
Poi una mattina accade l’imprevedibile: l’automobile sulla quale sta viaggiando con il padre e il fratellino esce inspiegabilmente fuori strada. Menachen va in cerca di soccorsi, ma quando torna sul luogo dell’incidente scopre che il genitore è misteriosamente scomparso. La polizia lo cerca negli ospedali, negli alberghi, sulle strade, ma l’uomo è sparito senza lasciare traccia. Non sembra l’allontanamento di un uomo in stato confusionale a seguito da un incidente stradale: il sospetto di tutti è che abbia simulato il tutto per costruirsi una nuova vita sotto una falsa identità. Probabilmente anche fuori dai confini d’Israele, lontano da quella Gerusalemme che fa da sfondo partecipe alle vicende di chi è rimasto a leccarsi le ferite e a chiedersi continuamente perché.
Per tutta la proiezione colpiscono le similarità anche narrative tra questo Tehilim e Avanim, film di cui abbiamo già avuto modo di parlare su queste pagine. In entrambi i film un evento inaspettato sconvolge le esistenze dei protagonisti obbligandoli ad un impietoso riesame dei valori sui quali avevano, sino a quel momento, costruito le proprie esistenze. In entrambe le pellicole il vuoto spaventoso di un’assenza si spalanca sotto i piedi dei personaggi andando a disegnare i tratti di una profonda crisi personale che c’era sempre stata, ma che era stata tenuta lontana dall’abitudine ad una vita quotidiana portata avanti più per inerzia che per reale convinzione.
Il tema della perdita, dell’improvviso venire a mancare di un elemento cardine sul quale ci si era, fino a quel momento, appoggiati sembrerebbe fortemente radicato all’interno della cultura ebraica e lo si potrebbe leggere come estremo tentativo di elaborare, a livello culturale ed individuale, l’orrore collettivo delle deportazioni e della Shoa. Ma, dopo la visione di due film gemellari come questi, pur nelle reciproche diversità che li contraddistinguono (Avanim centrava la sua attenzione sull’universo femminile, Tehilim sonda invece le contraddizioni del mondo adolescenziale), ci si accorge che sarebbe un errore grossolano tentare di inquadrare le opere di Nadjari nella mera dimensione di poesie del vuoto e dell’assenza.
Certo la dimensione della mancanza è fondativa: la perdita del proprio baricentro è il punto di partenza imprescindibile dell’intero congegno narativo (in Tehilim ancon più che in Avanim dove la morte dell’uomo amato dalla protagonista avveniva molto dopo l’inizio del racconto), ma il vero centro del discorso non è il senso nichilista di un lutto difficile da elaborare quanto, piuttosto, l’esigenza di una forte ridefinizione della propria stessa esistenza. Al centro delle due pellicole di Nadjari c’è, quindi, soprattutto l’esigenza di una ricostruzione, di una rifondazione dei valori sui quali costruire nuove esistenze, nuovi orizzonti.
Un tema quest’ultimo, a pensarci, forse ancor più profondamente ebraico, sicuramente più orientato verso il futuro, del tema della perdita e dell’elaborazione del lutto. Sicchè assume valore fondante la precisa definizione della realtà culturale nella quale si muovono i vari personaggi messi in scena. Nadjari mette in scena una realtà culturale in piena ridefinizione (qui la realtà individuale davvero finisce per coincidere con quella collettiva), un mondo in cui i vecchi valori delle discussioni filosofiche sul Talmud devono imparare a convivere con l’emergere del nuovo (incarnato anche in questo caso da figure femminili volitive che attraversano la scena consapevoli di ciò che vogliono: si pensi a come la madre allontani dalla sua casa gli uomini di famiglia che erano andati lì per pregare per l’uomo scomparso tirandosi, con questo, addosso un mare di critiche). Un mondo che, omologandosi in parte ai modelli imposti dalla globalizzazione, comincia a rivivere le vecchie tradizioni in una luce nuova.
Nadjari si conferma, con questo film, autore incredibile sensibilità. La sua capacità di stare attaccato al dramma dei propri personaggi ha del miracoloso. E le figure che disegna sono di incredibile, dolente umanità.
(Tehilim); Regia: Raphaël Nadjari; sceneggiatura: Raphaël Nadjari, Vincent Poymiro; fotografia: Laurent Brunet; montaggio: Sean Foley; musica: Nathaniel Mechaly; interpreti: Michael Moshonov (Menachem), Yonathan Alster (David), Ilan Dar (Nonno), Limor Goldstein (Madre), Yoav Hait (Zio); produzione: BVNG, Transfax Films; origine: Israele, 2007; durata: 96’
