Pesaro 45 - The confessions of Roee Rosen - Cinema Israeliano

Roee Rosen (classe 1963) è un pittore, uno scrittore ed un regista di origini israeliane. I suoi dipinti sono esposti in molti musei sparsi per il globo e la sua fama si accresce di anno in anno grazie ai numerosi riconoscimenti che si è conquistato nel corso della sua multiforme carriera.
Il suo rapporto con il suolo palestinese è travagliato e complesso. Dopo un inziale periodo di studi a Tel Aviv, infatti, l’autore si è trasferito a New York dove ha seguito un corso di Arti Visuali presso l’Hunter college di New York. Qui il suo lavoro ha cominciato prendere quella piega polemica e scandalosa che gli conosciamo e che gli ha permesso di farsi conoscere. Successivamente è tornato in Israele dove tiene corsi di Storia dell’Arte sia all’Università che all’Accademia di Bezalel.
La sua vita potrebbe tutta essere disegnata all’interno di questo percorso triadico: dalla nascita e dalla prima definizione del sé, all’emigrazione e al bisogno di perdersi nelle contrade dle mondo in cerca di un’identità adulta anche in aperta contraddizione con la realtà dei padri, sino al finale recupero, anche doloroso, delle proprie radici e delle proprie tradizioni. Un percorso di tappe hegeliane che vedono sortire una sintesi, sia pur provvisoria, dallo scontro tra la tesi dell’infanzia e l’antitesi contraddittoria del mondo adulto. In questo percorso l’uomo ha indossato quante più maschere possibili, si è appropriato di infinite identità che hanno finito col rispecchiarsi nei suoi lavori ed ha attraversato il mondo seguendo una successione di fasi spesso tra loro apertamente contraddittorie (si pensi solo al suo periodo ebreo-neonazista).
Non stupisce, allora, che, nell’immaginare le sue confessioni ad un passo dalla morte (anche questa provocatoriamente immaginaria), l’autore trovi nel tre il numero ideale per definire la struttura del proprio lavoro. Tre sono, infatti le parti in cui sono divise le sue confessioni, tre il numero delle attrici che le declamano (tre donne immigrate in Israele per motivi di lavoro che non conoscono una parola di ebraico e, quindi, non sanno assolutamente nulla di quello che stanno proferendo) e tre è il numero dei brani musicali che interrompono il libero fluire delle parole per proporre, allo spettatore, riflessioni sonore sul tema della morte. Il valore triadico del discorso segue il passaggio dal mito monadico della nascita, alla scoperta dell’altro sino all’evoluzione di una coscienza politica (che rilegge i conflitti in terra d’Israele in chiave apertamente antigovernativa) che coincide, significativamente con la riappropriazione del proprio passato e di quelle tradizioni che si erano rifiutate sino a poco prima.
L’opera di Rosen esibisce la sua struttura come uno insetto che ha lo scheletro all’esterno a proteggere le carni. Tutto è dichiarato all’interno di un lavoro che si autodenuncia come frutto di una provocazione il cui linguaggio può apparire (e forse lo è davvero) un po’ stantio e risaputo. L’interpretazione brechtiana dei testi letterari, restituiti allo spettatore in piani sequenza inarrestabili all’interno dei quali le donne si limitano a leggere testi che non capiscono, determina un primo livello di distacco rispetto alla materia trattata. Ne sortisce un’ironia acidula amplificata, ad un secondo livello, dall’estrema ingombrante fisicità delle parole proferite. Purtuttavia le parole, che fanno riferimento al vissuto personale di Rosen, sono abbastanza generiche da potersi adattare anche ai volti ed ai corpi (ed alle storie) delle donne che le proferiscono. In questo possibile riconoscimento con l’altro si evince il valore del terzo livello di lettura dell’opera, quello più politico ed apertamente polemico.
Se nella lettura delle confessioni il regista blocca la ripresa in statici piani sequenza, è nei brani musicali che trionfa, invece, un montaggio via via più serrato e complesso. In questo modo l’intero lavoro finisce per assumere l’andamento di una vera e propria cantata audiovisiva sostenuta dalla successione di arie e recitativi come nella migliore tradizione barocca.
Ne viene fuori un lavoro estremamente cerebrale il cui spirito provocatorio è debitore delle esperienze di autori come Burroughs. La poesia resta, però sotto lo scheletro.
(The confessions of Roee Rosen); Regia e sceneggiatura: Roee Rosen fotografia: Avner Shahaf; montaggio: Ben Hagari; musica: Dikla Baniel; interpreti: Ekaterina Navuschtanova (Roee Rosen 1), Francisca Panikar (Roee Rosen 2), Haddy (Roee Rosen 3); origine: Israele, 2008; durata: 57’
