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Pesaro 46 - Der Räuber - PNC

Pubblicato il 25 giugno 2010 da Matteo Galli


Pesaro 46 - Der Räuber - PNC

Che Benjamin Heisenberg fosse bravo lo si era già capito, fin dai tempi in cui, insieme a Christoph Hochhäusler aveva scritto la sceneggiatura di Milchwald (Il bosco di latte, 2002), una moderna rivisitazione, impietosa e freddamente fenomenologica di Hänsel e Gretel, al confine fra la ex-DDR e a Polonia. E anche il suo primo lungometraggio, Schläfer (In sonno, 2005), ambientato a Monaco in un laboratorio di ricerca, una storia di amicizia e rivalità fra due colleghi con una deriva spionistico-paranoica, aveva dimostrato solidità di scrittura, di sguardo e di montaggio. Heisenberg – giova ricordarlo – è anche il factotum di “Revolver”, una delle riviste di cinema più interessanti che si pubblicano in Germania, i “Cahiers du cinéma” della cosiddetta “Berliner Schule”, in larga parte ancora sconosciuta in Italia, ma che da almeno una decina d’anni costituisce un importante punto di riferimento del nuovo cinema d’autore europeo, con autori quali Christian Petzold, Angela Schanelec, il citato Hochhäusler, Thomas Arslan (che nel “Forum” di quest’anno ha presentato il troppo televisivo Im Schatten [Nell’ombra]), Valeska Grisebach. Quattro anni dopo Schläfer – i tempi dilatati fra un film e l’altro la dicono lunga sulle enormi difficoltà produttive di questi autori, Petzold escluso – Heisenberg ha presentato in concorso il suo secondo lungometraggio Der Räuber (Il rapinatore), una produzione austro-tedesca. Il film è l’adattamento del romanzo omonimo, scritto da Martin Prinz, a sua volta basato su un episodio di cronaca nera che ebbe un notevole rilievo nella stampa austriaca nella seconda metà degli anni ’80, il caso del rapinatore Johann Kastenberger, denominato “Pumpgun-Ronnie”, perché autore di una lunga serie di rapine, armato, appunto, di un fucile a pompa e con addosso la maschera di Ronald Reagan. Alla caccia all’uomo che portò alla sua cattura presero parte quasi cinquecento poliziotti austriaci. Nel film il nome di battesimo è lo stesso, il cognome invece è cambiato: Rettenberger anziché Kastenberger. Non si pensi tuttavia che il “retten” (in tedesco vuol dire “salvare” ) della prima parte del cognome significhi qualcosa, al contrario. Fin dal primo momento in cui esce dal carcere (il concorso di quest’anno è pieno, a ben vedere, di film carcerari: il film di Serban, quello di Vinterberg, quello di Moland, e anche le isole di Scorsese e di Polanski in fondo sembrano/sono colonie penali) capiamo che per lui non c’è proprio salvezza. Johann (interpretato con grande bravura da Andreas Lust) si dedica in modo compulsivo alle sue uniche passioni, ossessioni: correre e fare rapine. Già in carcere, durante l’ora d’aria, non fa altro che correre girando in tondo nel cortile, e nella cella c’è un tapis roulant per fare step. Quando esce di galera riprende a correre fino a sfinirsi, attenendosi a rigorose tabelle e, addirittura, partecipando con successo alla maratona di Vienna; a intervalli regolari compie rapine, così, quasi senza un vero scopo, sembra che si tratti di un gioco, di una sfida. I soldi li accatasta sotto il letto, l’unico lusso che si permette è un nuovo modello di scarpe da corsa. Questa vita così regolata non subisce sussulti neanche quando incontra, anzi re-incontra, Erika (Franziska Weisz) dalla quale prende una stanza in affitto e con cui ha una storia fatta per lo più di sguardi e silenzi. Lo spettatore quasi arriva a pensare che il protagonista anche facendo l’amore si applicherà il cardiofrequenzimetro, giusto per controllare anche in quel caso le pulsazioni. Lo splendido laconismo del film non ci rivela che cosa la ragazza trovi in quest’uomo brusco e silenzioso; si può solo intuire che è una donna sola, con una storia familiare complessa alle spalle, ma nulla più. Se nel film c’è una svolta, questa svolta si chiama hybris: il protagonista vuole sempre di più, vuole combinare le due passioni, le corse e le rapine, prende ad assaltare le banche del centro di Vienna e poi scappa di corsa, sempre più veloce, finendo per perdere il controllo delle sue azioni e dei suoi nervi, diventando un omicida. Nell’ultima parte il film vira in una sorta di action movie, mette in scena la grandiosa caccia all’uomo, lasciando fino in fondo aperte tutte le possibili conclusioni e culminando in una memorabile sequenza finale, sia sul piano visivo che su quello acustico, uno dei molti punti di forza dell’intero film, quest’ultimo, con largo spazio dedicato alla musica diegetica proveniente dalla radio, spesso in funzione di contrappunto, e un simil-Puccini scritto da Lorenz Dangel, a cui viene demandato il compito di documentare lo strazio inespresso del protagonista. Più in generale il film è fotografato in modo eccellente e sorprendente da Reinhold Vorschneider, uno dei principali cameramen della “Berliner Schule”, capace di alternare – in più che perfetto stile fenomenologico berlinese – lunghe inquadrature statiche su spazi e corpi (bellissima la prima inquadratura in penombra dei due corpi nudi di Johann e Erika), ai convulsi movimenti con la steady cam per seguire il maratoneta: una prestazione ginnica dell’intera troupe.


CAST & CREDITS

(Der Räuber) Regia: Benjamin Heisenberg; sceneggiatura: Benjamin Heisenberg, Martin Prinz; soggetto: Martin Prinz tratto dall’omonimo romanzo;fotografia: Reinhold Vorschneider; montaggio: Andrea Wagner, Benjamin Heisenberg; costumi: Stephaie Riess;interpreti: Andreas Lust (Johann Rattenberger), Franziska Weisz (Erika), Markus Schleinzer (impiegato dei servizi sociali); produzione: Nikolaus Geyrather (Vienna) – Peter Heilrath (Monaco); origine:: Austria-Germania; durata: 96’.


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