Pesaro 46 - Vaho - PNC

Un paesaggio deserto si allunga sin oltre la linea d’orizzonte. Siccità ed arsura riempiono l’inquadratura oltre i limiti del tollerabile a dare il senso di un vuoto che non è solo di vita, ma anche di valori, di significato, di Senso.
Una strada, appena disegnata tra le dune, segue il percorso di tubi giganteschi di cui si ignora la funzione. Sulla strada un piccolo camion sgangherato e vecchio, adibito ironicamente al trasporto dell’acqua, completa sonnolento il suo percorso nel nulla mentre una voce alla radio inneggia alle glorie del passato precolombiano del Messico.
Deserto ed acqua si incontrano senza incontrarsi, restano staccati l’uno dall’altro sotto un cielo senza nuvole in un contesto che è tanto esistenziale quanto politico.
Poco più avanti la macchina da presa completa questa primo piano sequenza affacciandosi nell’abitacolo del camion dove un uomo consuma uno squallido rapporto sessuale con una prostituta: altro incontro di solitudini nello spasimo di un breve momento.
L’impermeabilità dei cuori e dei mondi è sin da subito eletto a protagonista assoluto di Vaho, primo film messicano in concorso quest’anno al Festival del Nuovo Cinema di Pesaro. Luogo di ossimori dolenti, l’incipit della pellicola è davvero vertiginoso: un lago prosciugato (questo il deserto che ospita le prime inquadrature del film), un uomo ed una donna che mimano un’intimità di pochi secondi al prezzo di cinque pesos, un trasporto d’acqua che attraversa in deserto senza essere utile ad alcuno. Il Messico raccontato da Vaho è un mondo perduto tra la gloria di un passato di cui restano statue e riti poco chiari, mischiati come sono ad una cristianità ambigua e magica (è la figura del mago sacerdote che riempie di incenso i passanti al fine di curarli dai loro mali) ed il senso di una metropoli che si apre ad Internet perdendosi per strada i valori del rapporto umano.
La prima stanza di questo vasto affresco culmina, infatti, con il ritrovamento, nel bel mezzo del deserto di una madre morte sul cui cadavere piange un bambino paffuto e sano: segna tangibile di una perdita di radici, ma anche di un passato ingombrante. Su questo paesaggio/tomba aleggia, infine, il presagio di un futuro dolente. Il luogo in cui morte e vita si abbracciano diventa, infatti, luogo di un santuario popolare dove si accede alla fine di un pellegrinaggio che ha tanto il sapore di un rito precristiano con le sue bandierine mosse dal vento.
In dieci minuti Vaho ha già dato il senso del suo discorso. Poche inquadrature sono state sufficienti a restituire tutta una riflessione poetica sul Messico contemporaneo e su una condizione esistenziale divisa tra passato ed impossibilità di futuro. Il resto del film segue questa linea piana da ampio affresco disegnandoci il percorso di tre solitudini che non riescono a vivere pienamente il propria destino per via di un complesso di colpa mai elaborato. Come per il bambino sopravvissuto alla madre in un deserto che ha il peso di una metafora bunueliana.
Il problema di Vaho non è tanto nelle ambizioni (che sono alte anche se non hanno lo slancio di certe pagine di Inarritu) quanto piuttosto nella capacità di trasformarle in un discorso coerente e compiuto.
Forte quando racconta il mito e cerca immagini potenti, il film perde spessore quando entra in una linea più marcatamente narrativa. Nel seguire i destini dei tre personaggi principali accomunati da uno stesso dilemma, la pellicola si smarrisce, infatti, in una logica più affine al bozzetto che al grande affresco. E la stessa metafora dell’assenza di un’acqua fecondante e portatrice di vita nel chiuso di un destino tutto maschile non sempre è limpida nel suo schematismo a volte eccessivo.
Peccato, perché la mano del regista è talentuosa e il suo sguardo sa intingere il Messico in colori acidi e secchi!
(Vaho); Regia e sceneggiatura: Alejandro Gerber Bicecci; fotografia: Alberto Anaya Adalid; montaggio: Rodrigo Rios, Juan Manuel Figueroa; interpreti: Francisco Godinez, Aldo Estuardo, Roberto Mares, Joel Figueroa; produzione: Abril Schmucler, Julio Barcenas, Alejandro Gerber Bicecci; origine: Messico, 2009; durata: 116’
