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Philofiction 2.1: da Happy Days a Walter White con Lucrezia Ercoli

Pubblicato il 8 ottobre 2016 da Giammario Di Risio


Philofiction 2.1: da Happy Days a Walter White con Lucrezia Ercoli

È la direttrice artistica di Popsophia e da anni indaga le relazioni e le strutture tra la filosofia e la cultura pop; Dottore di ricerca in “Filosofia e Teoria delle Scienze Umane” e insegnante di Storia della Televisione presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, Lucrezia Ercoli con la sua professione metaforizza la fluidità di pensiero e analisi insita nel progetto, nella sfida di Popsophia. L’abbiamo incontrata durante il festival Philofiction per conoscere maggiormente il suo punto di vista sulla serialità televisiva .

Quali sono state le due serie tv, anni Settanta e Ottanta, che hanno maggiormente modificato il nostro immaginario?

Me ne vengono in mente due: Happy days e Twin Peaks. Con la prima abbiamo abbracciato un’epica della fiction capace di inventare un perfetto modello familiare. Abbiamo un “gruppo famiglia” idilliaco dove anche l’ousider, in questo caso Fonzie, viene inglobato nel nucleo e la sua indole è continuamente smorzata. Questo assetto ha sicuramente condizionato il nostro immaginario. Con la seconda invece l’analisi si gioca più sul linguaggio e sulla forza che ha avuto l’opera di Lynch nello sdoganare i prodotti televisivi che fino a quel momento venivano etichettati come contenuti di serie b. In questo caso abbiamo un versante autoriale, il genere noir che si inserisce nel discorso seriale e il fenomeno fandom che inizia a pulsare.

A quali prodotti seriali ti sei appassionata da adolescente?

Sicuramente i Teen drama, da Berverly Hills a Dawson’s Creek, mi hanno coinvolta. Sono dei romanzi di formazione che hanno avuto la capacità di costruire mondi e universi culturali ricchi di tematiche. Nel teen drama, nonostante parliamo di protagonisti adolescenti, c’è una lettura profonda sul tema della famiglia, della morte, dell’omosessualità. Il tutto viene coordinato in chiave leggera ma i sottotesti significano la narrazione continuamente.

Lost è il punto di rottura della nuova Golden Age seriale sul versante della sceneggiatura. Se dovessi trovare un corrispettivo seriale sulla filosofia?

A me interessa il prodotto seriale in cui la filosofia non è esplicitata, in cui il mondo narrativo e il suo incedere diventano riflessione filosofica a priori e senza precisi riferimenti. In quest’ultimo caso Lost può essere portato ad esempio, con i suoi personaggi che hanno nomi di filosofi o i continui dialoghi a doppia interpretazione. Un testo seriale viceversa come Grey’s Anatomy mi incuriosisce maggiormente visto che sotto la patina emergono visioni sull’amore, sull’etica, che condizionano il pensiero.

Come nasce il progetto di Philofiction all’interno del contenitore Popsophia?

Sono già sei anni che, con Popsophia, indaghiamo la serialità televisiva in rapporto con la filosofia. Ricordo la prima edizione in cui analizzammo Sex and The City e Lost. Posso dirti che abbiamo sempre riscontrato nella serialità televisiva recente la maggiore forma d’arte che la tv di massa abbia mai creato. Ormai questi prodotti costruiscono il nostro immaginario collettivo e Philofiction segue questo nostro punto di vista. Il passaggio cruciale sta nell’aver abbandonato il semplice dibattito tra appassionati per costruire un format didattico in cui la discussione diventa aggiornamento, strumento critico da applicare.

Baudrillard ci parla di virulenza delle immagini e allora come ci poniamo di contro al proliferare della serialità?

Siamo immersi nella serialità televisiva e ciò deve essere affrontato con nuovi strumenti e prospettive. Baudrillard, che è l’ultimo stadio di una sorta di catastrofismo collettivo che parte da Adorno, vive il suo discorso con un’evidente malinconia. Tutte le epoche hanno avuto dei forti cambiamenti di griglia interpretativa e Popsophia si scontra con il passato presentando dei tentativi sperimentali, rischiosi in cui si cerca una strada, un modello in gioco tra popolare e populista.

Sono gli americani i più bravi narratori o ci siamo semplicemente assuefatti?

Loro hanno creato la showrunner, figura nuova e di fatto demiurgo della complessa costruzione seriale. Non possiamo più prescindere da questa realtà, che non cancella la ricchezza e la forza della letteratura europea ma che dimostra maggiore originalità con il continuo gioco sui codici e le regole classiche. Il principio di dilatazione narrativa, pensiamo a Breaking Bad, che abbiamo la fortuna di scoprire non ha precedenti.

Philofiction può aprire a maggiori appuntamenti annuali?

Siamo al secondo giorno della prima edizione e l’esperienza sta risultando molto positiva. Sicuramente le scuole, il mondo accademico e molte professioni possono interagire con questo format arricchendo le proprie metodologie. Non ti nascondo che abbiamo lavorato molto per abbattere i pregiudizi su questa nostra impostazione ma piano piano stiamo crescendo.

Quale personaggio, cinematografico o televisivo, ha arricchito la nostra capacità critica sul reale?

Ti dico Walter White. Lui è riuscito a scardinare il nostro codice etico e quindi ci ha fatto capire come il codice sia, di fatto, un artificio.

In conclusione: non c’è dunque un limite alla fruizione di immagini?

No perché queste immagini ci aiutano a scavare e comprendere le questioni perturbanti della nostra soggettività e senza edulcorarle. La fiction cambia il linguaggio filosofico. Le serie aiutano la filosofia.


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