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Piazza delle cinque lune

Pubblicato il 20 maggio 2003 da Alessandro Izzi


Piazza delle cinque lune

Piazza delle Cinque Lune è, nelle intenzioni, un’opera incredibilmente ambiziosa. Come però troppo spesso avviene in certo cinema di denuncia sociale recente (specie se di produzione italiana) i risultati sono, purtroppo, ben al si sotto delle pur rosee aspettative. Ed è un dato questo su cui varrebbe la pena riflettere un poco, perché se è vero ed innegabile che, negli ultimi tempi, il livello qualitativo della nostra produzione si è di colpo alzato rivelando in autori vecchi e giovani la voglia di dire cose, di problematizzare storie e situazioni, è altrettanto vero che questa ondata di idee e di talenti non riesce, poi, alla fine, a toccare per davvero le corde della politica e della storia mettendo sul campo delle verità che possano suonare in qualche misura scomode. Un film come I banchieri di Dio, di un autore come Ferrara che spesso aveva prestato il suo sguardo all’analisi di pagine non certo edificanti del nostro recente passato (tra l’altro è stato anche autore di un precedente film sul caso Moro) è, in questo senso, esempio fin troppo chiarificatore di una tendenza tutta italiana a dilapidare le possibilità del cinema come strumento di lotta e denuncia sociale in favore di opere che si vogliono scomode a parole, ma che non riescono a scalfire davvero la superficie di una società come quella italiana ormai irreversibilmente votata a un vero e proprio menefreghismo individualista (una vera manna per certi approfittatori sedicenti politici). Nel tentativo di superare la cattiva abitudine dello spettatore medio ormai televisivizzato gli autori che si impegnano a realizzare dei film di denuncia non lesinano, quindi, in quella pratica mai abbastanza vituperata di sciogliere i problemi nell’acido muriatico del reportage televisivo dove ogni cosa va spettacolarizzata ed ogni concetto va spiegato con i puntini sulle i, comprese strane verità come: “rubare non è propriamente legale” e “mandare qualcuno ad uccidere qualcun altro non deve essere poi così diverso dall’uccidere con le proprie mani”. Lo stesso Martinelli, già autore al cinema di un paio di film di denuncia sociale tra cui Vajont (tentativo di rinverdire i fasti del cinema d’impegno attraverso le strategie del polpettone simil hollywoodiano con tanto di effetti visivi) non riesce a non cadere nella trappola delle troppo facili esemplificazioni. Partendo da una delle pagine più nere della nostra storia recente, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, Martinelli punta il dito su tutte le irregolarità che si sono succedute nelle indagini dal giorno della strage di via Fani nella quale perirono i cinque agenti della scorta, fino al momento del ritrovamento del cadavere dello statista democristiano. Attraverso perizie, lettere, dichiarazioni di testimoni e varie carte processuali il regista, coadiuvato dal volenteroso sceneggiatore, tenta (bisogna pur rendergliene atto) di mantenere uno sguardo oggettivo sugli eventi. Ossessionato dall’equidistanza e dall’equilibrio, il regista filma tutto dall’alto (come il video in super otto da cui parte la macchineria narrativa messa in scena che contiene le riprese da un balcone della strage di via Fani) in una visione che, però, presto rivela il problema non da poco di non riuscire a mettersi davvero in discussione con il rischio di dare l’impressione di metterci di fronte allo snocciolamento di una serie di verità incontrovertibili e sicuramente documentate. La storia di Moro dovrebbe allora essere solo il pretesto per arrivare a disegnare un quadro attendibile dell’Italia nera: dalle responsabilità delle logge massoniche fino alla morte ancora inspiegata del giornalista Pecorelli. Se dicessimo che in tutto questo non brilla autentica passione filologica diremmo uno sostanziale bugia, il problema del film è, semmai, che questa passione non riesce poi a trovare un reale equilibrio con la componente finzionale che pure non è negata. Troppo concentrati sui personaggi reali della nostra storia, gli autori devono aver dimenticato di dire qualcosa anche su quelli fittizi che sono costretti, per questo, ad emergere dal contesto a suon di stereotipi di bassissima lega. E le parole che gli autori mettono loro in bocca aggravano ulteriormente l’impressione di requisitoria didascalica che resta il vero problema del cinema d’impegno oggi. Gli attori, pur volenterosi, così malamente serviti dal copione e così trascurati dal regista annaspano e, alla fine, annegano nel mare magnum di un’occasione sprecata.

(Piazza delle cinque lune); regia: Renzo Martinelli; sceneggiatura: Renzo Martinelli, Fabio Campus; fotografia: Blasco Giurato; montaggio: Massimo Quaglia; musica: Paolo Buonvino; interpreti: Donald Sutherland, Giancarlo Giannini, Stefania Rocca, Aisha Cerami, F. Murray Abraham; produzione: Martinelli Film Company Int., Istituto Luce; distribuzione: Istituto Luce origine: Italia 2003

[maggio 2003]

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