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Pilade al Teatro Vascello dal 7 al 24 ottobre

Pubblicato il 11 ottobre 2010 da Michele Ortore


Pilade al Teatro Vascello dal 7 al 24 ottobre

C’è Elettra che si sporge appena dal sipario: il tempo brevissimo di uno sguardo al pubblico, con gli occhi allucinati dal timore, prima di ritrarsi su un palco ancora coperto dal tendone, come se il cominciamento fosse un gesto troppo faticoso, quasi indesiderato. Solo dopo qualche secondo, il sipario si apre davvero. Spesso, la cifra più intima e vera di uno spettacolo si coglie dai primissimi attimi. Pilade non fa eccezione: la sclerosi dell’inizio continua ad aleggiare, silenziosa, lungo l’intera messa in scena, gocciolando un’inquietudine propriamente tragica, così greca e così pasoliniana.
Fin dal lungo monologo iniziale di Antonio Piovanelli, Pilade presenta tutta la sua distanza rispetto ai paradigmi (o forse alle mode?) dell’ultimo teatro di ricerca: nella drammaturgia del lavoro di Venturi domina incontrastata la parola, la parola come contenuto, in perfetta aderenza al Manifesto di Pasolini. Partendo dal presupposto che il teatro è sempre e comunque rito, il buon Pier Paolo cercava una via diversa sia dalla rappresentazione borghese, sia da quella avanguardistica; entrambe, come due facce della stessa medaglia, una positiva e una negativa, avevano dimostrato di essere solo uno strumento di autoaffermazione del ceto dominante. La via da seguire, allora, sarebbe quella di un rito culturale, una drammaturgia di parola, di analisi sociale veicolata dal lirismo. Tutt’altra cosa rispetto alle riflessioni semiotiche, focalizzate sulle illusioni e i poteri del significante, e all’iconoclastia di artisti contemporanei come Timpano, Cosentino o i Teatro Sotterraneo.
In Pilade, coerentemente con quanto detto, il dominio del contenuto è evidente e costante, dal primo all’ultimo secondo: la pièce è una sequenza di lunghi monologhi, con l’azione scenica ridotta a movimenti minimi e simbolici. La vocalità, quindi, è l’elemento drammaturgico principale: è proprio qui, però, che le scelte di Venturi non sembrano convincenti. La dizione dei quattro attori è idiolettica, a tratti chiaramente regionale, tranne nel caso della Kustermann, di gran lunga la migliore interprete, intensa e senza cadute. L’idea dell’idioletto sarebbe in sé buona, soprattutto se pensata come un ulteriore tributo al pensiero pasoliniano. Il problema è che la recitazione di Piovanelli e Braghieri ha dei difetti di perspicuità: il primo nella scansione, il secondo nel volume. La forte caratterizzazione dei singoli personaggi, fra cui emerge soprattutto la caricaturalità di Pilade, diventa stonata e artificiale quando gli attori interagiscono: è un problema che si nota soprattutto quando la flemma di Braghieri duetta con la ben più solida impostazione della Kustermann. Altre piccole imperfezioni (la sintonia fra azione scenica e accompagnamento musicale, ad esempio) impediscono allo spettacolo di trovare una sua piena identità, procedendo per strappi e pause. Di certo, però, non tutte le lacune di Pilade sono da attribuire al regista e agli interpreti. La sensazione, infatti, è che sia proprio il Teatro di Parola a non avere gli strumenti per leggere e rappresentare con efficacia il reale. L’idea della "condivisione democratica" di analisi e problemi politici ha trovato spazio nel teatro di narrazione, con il suo codice molto più diretto e popolare. Il linguaggio pasoliniano, così impegnato, ma anche così lirico e disperato, richiede invece molto impegno per essere seguito e compreso, soprattutto se la sua intensità simbolica non è veicolata da una trama concreta. Se l’obiettivo è riappropriarsi della funzione civile del teatro, e dunque di trovare i modi e le forme per parlare alla gente, di qualsiasi livello culturale essa sia, forse bisognerebbe trovare il coraggio –in fondo, umile- di mettere in discussione anche l’illustre esempio di Pier Paolo.


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