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PiN2011 - recollection of the street - Roma 2009 - L’altrocinema/Extra

Pubblicato il 23 ottobre 2009 da Lorenzo Vincenti


PiN2011 - recollection of the street - Roma 2009 - L'altrocinema/Extra

E’ senza dubbio l’arte l’elemento che, al pari dello sport, ha avuto maggior risalto nei documentari presentati all’interno della sezione Extra del Festival Internazionale del Film di Roma. Dopo Con Artist di Michael Sladek e Latta e caffè dell’italiano Antonello Matarazzo spetta infatti al tedesco PiN2011 – recollection of the street chiudere il cerchio e completare questa sorta di rassegna improvvisata costruita attorno alle diverse sfaccettature di un mondo variegato come quello artistico. Il documentario realizzato da Torsten Königs deve il suo titolo allo pseudonimo di un giovane artista di Berlino, PiN2011 appunto, protagonista della storia raccontata all’interno dell’opera e artefice di una forma d’arte particolarmente efficace. Una pratica diretta e appassionante, realizzata in quello stato di perenne illegalità da cui essa pretende di acquisire ancora più dignità e spessore. Un credo artistico, insomma, da far vivere sui muri stanchi della metropoli, sulle sue zone spente, sui suoi angoli bui e nascosti con l’obiettivo di lanciare messaggi in maniera diversa dalla solita pratica stanca del graffitismo più basso. PiN2011 infatti affida la sua poetica, il suo punto di vista sul mondo non alle consuete linee contorte dei tag metropolitani ma ad una serie di disegni stampati su carta, precedentemente preparati in studio, definiti meticolosamente in ogni parte per poi essere incollati con rapidità impressionante durante l’atto finale del gesto artistico. Rappresentazione di mondi particolari, di divinità mitiche, di esseri indefinibili e assolutamente estranei ad ogni più semplice interpretazione. Sono questi i soggetti di quei lavori così bizzarri, il contesto di estraneità in cui essi sono ambientati, l’essenza del discorso che essi pretendono di divulgare. Anche in quei fogli di carta può esserci infatti un messaggio e PiN2011 ci tiene particolarmente a ribadirlo per tutta la durata del documentario a lui dedicato. Egli ci conduce per mano dentro la sua pratica artistica, ci porta nei luoghi dove vivono le sue più belle e famose installazioni e ci presenta il suo protagonista, il personaggio principale di ogni sua opera d’arte. Un piccolo pupazzo che anima le storie raccontate sui muri, che le conduce personalmente e che trasmette per primo, tramite i suoi bizzarri travestimenti, le sue tute spaziali, le sue espressioni mutevoli i messaggi lanciati dall’autore dell’opera. Non solo, il piccolo pupazzo è l’unico che ha la facoltà di fuoriuscire dalla cornice dei poster, dalla dimensione bidimensionale che li caratterizza ed evadere così sulla superficie del muro ospitante raggiungendo nel frattempo la tridimensionalità tanto voluta. Nei 50’ minuti circa di durata, l’attenzione dello spettatore rimane praticamente immutata, la sua visione resiste di fronte al racconto affascinante della vita di un artista di strada oscuro e misterioso, il cui volto non appare mai di fronte all’obiettivo e la cui pratica non può essere difesa, urlata e manifestata apertamente in pubblico. L’intera struttura del documentario sembra quasi risentire dell’oscurità del suo protagonista, a volte sembra addirittura assecondarla attraverso una forma sporca e diretta, particolarmente utile alla restituzione istantanea di un atto illegale da ammirare in maniera vouyeristica. Negli esterni, nei percorsi compiuti in città o in trasferta a Lisbona la visione è in perenne stato di alterità, in una condizione mutevole. I movimenti sono in divenire, in ridiscussione continua dietro gli impulsi lanciati dall’erranza dell’artista, costantemente posto di spalle davanti all’obiettivo della telecamera che lo pedina. Negli interni invece, nei rari momenti in cui vediamo il ragazzo intento nel suo lavoro in studio la forma placa la sua ansia da prestazione e si adatta alla sicurezza del luogo acchetando vistosamente il proprio impatto sul soggetto e sulla sua forma d’arte. Se ne sta in disparte ad ammirare il lavoro o ad ascoltare le dissertazioni del suo protagonista senza più di tanto farsi sentire. Sono proprio questi gli unici attimi in cui lo spettatore ha la possibilità di respirare. Troppo pochi però se si pensa all’intensità con cui il pubblico viene continuamente coinvolto nell’esecuzione illegale dell’artista. Se c’è un difetto in questo film esso risiede infatti nel suo stato claustrofobico eccessivo, nella presenza esigua di parentesi come quelle appena accennate in grado di concedere una pausa alla visione palpitante dello spettatore e di ricaricarlo in vista della successiva immersione nella vastità metropolitana scrutata. Per il resto l’opera non mostra particolari mancanze, appare al contrario molto interessante proprio perché riesce a portarci dentro una storia unica, originale e sconosciuta all’esterno, a farci conoscere le pieghe di una pratica artistica poco considerata, osteggiata anche dall’opinione pubblica ma, cosa ancor più significativa, riesce a costruire un legame diretto tra chi guarda e il protagonista della vicenda creando quella sorta di scambio reciproco, quel rapporto di fiducia alla base di ogni forma d’arte. Anche quella documentaristica ovviamente. Königs riesce a fare tutto ciò attraverso le sue immagine rubate, quasi drammatiche per la loro partecipazione e attraverso un ritmo interno ben costruito e ben amalgamato, vera essenza di un documentario di creazione non particolarmente innovativo ma certamente molto buono, nell’insieme compatto, semplice nella rappresentazione e diretto come un reportage giornalistico.


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