PIRATI DEI CARAIBI - LA MALEDIZIONE DEL FORZIERE FANTASMA

Ogni strategia comunicativa di questo sequel tanto atteso da un’orda di fans agguerriti, è fondata sul meccanismo dell’accumulo.
Un vero e proprio conglomerato situazionale è alla base, per esempio, dell’organizzazione della sceneggiatura che pare tutta orientata su un principio di scrittura basato sul perenne rincorrersi di eventi e colpi di scena in perfetta soluzione di continuità. Gli accadimenti del racconto, fusi col collante narrativo di un reciproco rincorrersi o di un rincorrere un oggetto perennemente sfuggente, sono, quindi inanellati in gioco di scatole cinesi che non fanno altro che rimandarsi l’una all’altra verso un finale che slitta via come in una fuga prospettica di specchi. La consequenzialità narrativa sembra essere un optional, non perché non ci sia per niente, ma perché essa tende a scomparire nell’affollarsi di situazioni e citazioni come in un oggetto da art nouveau in cui la funzione architettonica viene abilmente celata da un gioco di linee ondulate ed elementi decorativi.
Il disperato cinetismo che ne deriva fa sì che il film non possa far altro che avanzare ad un ritmo sempre più forsennato, nell’impossibilità di qualsiasi forma di stasi o di oasi riflessiva. Quello che conta, sempre e prima di tutto, è, infatti, il puro senso del movimento e il continuo desiderio di sfondamento delle aspettative del pubblico. In questo senso, come era già avvenuto nel primo film della serie (al confronto, infinitamente più levigato, ma anche paradossalmente più lento), un elemento indispensabile all’unificazione del discorso è l’ironia e l’autoironia con cui gli incidenti narrativi vengono pensati e messi in azione. Con la sospensione costante dell’immedesimazione, abilmente giocata com’è sulla palese incongruità delle situazioni, l’ironia finisce per diventare, quindi, il vero ed unico motivo poetico che sta alla base del progetto.
La sceneggiatura, insomma, non prende corpo da un’idea preesistente, da un soggetto forte (come avviene normalmente anche nel cinema più smaccatamente di genere e, per questo stereotipato), ma nasce nel farsi, si aggroviglia proprio mentre si dipana, gioca costantemente di interesezioni che creano continui corto circuiti situazionali. Si pensi, in questo senso, ai continui slittamenti di piano della mirabolante sequenza sulla spiaggia dell’isola del forziere quando si incontrano contemporaneamente i racconti della sfida a tre tra Capitan Jack, Will Turner e Norrington (già questo uno snodo complesso), quello del duetto di pirati che cercano di impossessarsi del forziere e che sono, inseguiti, per questo da Elizabeth, prima, e dalla ciurma di Davey Jones, poi. Questi piani del racconto, che avanzano in maniera assolutamente autonoma secondo un meccanismo attanziale continuamente cangiante (tra i tre sfidanti c’è un continuo gioco di alleanze; il duo dei pirati prima fugge da Elizabeth, poi si unisce alla donna per sfuggire ai fantasmi ecc.) occupano spesso lo spazio della stessa inquadratura, in un gioco di profondità di campo e la loro reciproca estraneità, pur nella continuità degli eventi e nel reciproco rapporto dei personaggi, finisce sovente per creare delle sospensioni narrative irriverentemente ironiche. Come quando i tre spadaccini finiscono sulla ruota del mulino che invade, con il suo giro metaforico, il campo di battaglia di Elizabeth e dei fantasmi interrompendo, per un attimo, la disputa in atto. E dicevamo metaforico non a caso perché la vera e propria ruota della fortuna messa in moto dai desideri di tutti (come la bussola di Jack che si orienta magicamente sempre nella direzione dell’oggetto più ambito) è la perfetta metafora visiva dell’intero percorso narrativo messo in atto.
Le stesse interpretazioni degli attori sono poi orientate verso un’utopica conciliazione degli opposti come nella contrapposizione (desunta in parte dalle logiche della Commedia dell’Arte italiana) tra la più statica coppia di innamorati e la geniale vulcanica estrosità del Capitano Jack.
Questo meccanismo di accumuli, poi, si riflette, e non poteva essere altrimenti, anche nel gioco della composizione grafica delle singole inquadrature andando ad informare profondamente il percorso di messa in immagine del mondo del film. Non solo perché all’interno della pellicola ci troviamo di fronte ad un vero e proprio affollarsi di locations (dall’Inghilterra al pieno del suo apogeo imperialista, alle isole di Tortuga, dalla Perla nera all’Olandese volante ecc.), ma anche nel corpo dei singoli fotogrammi, dove ogni immagine è una sommatoria indifferenziata ed incongrua di figure ed elementi.
Questa vera e propria ridda di informazioni trova i suoi vertici nelle sequenze palesemente in interni (come nel caso della tenda dei selvaggi cannibali dove paprika e corde da scalata coesistono pacificamente), ma raggiunge il suo picco nella splendidamente disegnata nave dell’olandese volante dove assistiamo ad un vero e proprio trionfo di composizione barocca (il modello parrebbe essere proprio i dipinti dell’Arcimboldo).
Le figure si intrecciano, nascono dalla sommatoria, spesso, di elementi eterogenei, si affollano e si sfidano come piante alla ricerca della luce. Un principio iconografico che ritorviamo non solo nell’affollarsi di oggetti inanimati come sartie e funi, timoni e cannoni che spuntano fuori dai luoghi più improbabili, ma anche nel disegnarsi sublime delle figure grottesche dei pirati maledetti, nati dall’incrocio simbiotico con figure della fauna e della flora marine. Ed è qui che il lavoro della computer grafica tocca i suoi vertici di assoluto virtuosismo (in particolare l’animazione dei tentacoli del Kraken quando si infiltrano nella stiva della Perla nera sono da urlo).
L’affollarsi di elementi lo ritroviamo, infine, anche nel piano sonoro della pellicola, non solo nella marea di invenzioni sonore (il suono viscido della barba tentacolare di Davey Jones, tra l’altro eccellente virtuosa di organo), ma anche nella pura e semplice musica di commento che mischia indifferentemente brani musicali del passato (echi remoti del Requiem mozartiano nella scena in cui Jack affronta il suo fato marino ecc.) e si fonda su un principio di proliferazione tematica e di esasperazione contrappuntisca (non a caso è l’organo con le tue tastiere e pedaliere a farla da padrona) che è alla costante ricerca di veri e propri conglomerati sonori.
Conseguenza di questo percorso verso l’accumulazione è l’estrema durata del film: due ore e mezza che sembrano essere appena il prologo di un terzo episodio già girato e che promette di essere ancora più mirabolante e affollato (la storia prenderà significativamente corpo nei mari al di là dei confini del mondo).
Ma da tutto questo vien fuori una pellicola che scorre, è vero, sulla pelle dello spettatore con incredibile piacere, con un senso di paradossale contraddizione (perché è quanto meno strano che il massimo della tecnologia vada a sposarsi con il massimo del rimpianto per i racconti picareschi ed insensato della gioventù hollywoodiana), ma anche con una sensazione di disperata superficialità.
Lo stesso racconto non s(f)onda mai il mistero del sotto l’acqua (e, quindi, del "dopo la vita" e della "dannazione"), resta sempre a pelo di mare e ci lascia con l’illusione di un intrattenimento assolutamente perfetto, ma alla fine, un po’ troppo innocuo.
(Pirates of the Caribbean: Dead Man’s Chest); Regia: Gore Verbinski; soggetto: tratto dai personaggi creati da Ted Elliott, Terry Rossio, Stuart Beattie, Jay Wolpert; sceneggiatura: Ted Elliott, Terry Rossio; fotografia: Dariusz Wolski; montaggio: Craig Wood, Stephen Rivkin; musica: Hans Zimmer; scenografia: Rich Heinrichs; costumi: Penny Rose; interpreti: Johnny Deep (Capitano Jack Sparrow), Orlando Bloom (Will Turner), Keira Knightley (Elizabeth Swann), Stellan Skarsgard (Bootstrap Bill), Bill Nighy (Davey Jones), Jack Davenport (Norrington), Jonathan Price (Governatore Weatherby Swann), Lee Arenberg (Pintel), Mackenzie Crook (Ragetti), Tom Hollander (Cutler Beckett), Naomie Harris (Tia Dalma), Alex Norton (Capitano Bellamy); produzione: Walt Disney Pictures, in associazione con Jerry Bruckheimer Films; distribuzione: Buena Vista International; origine: USA, 2006; durata: 153’ webinfo: Sito ufficiale; Sito italiano
