Pulse

Paradossalmente la scena più inquietante di Pulse arriva quasi all’inizio del film, prima ancora dell’avvento dei mostri sanguinari e delle scene ad effetto (se si esclude la sequenza di prologo, come sempre posta al di fuori del film per attirare la labile attenzione del pubblico adolescenziale portandolo direttamente in media res). È la scena in cui i giovani protagonisti della pellicola si incontrano a cena in un anonimo locale tra molte luci, forte musica di sottofondo e qualche banalità gridata forte tanto per farsi sentire. Una scena volutamente anonima, filmata, come tutto il film, con piglio videoclipparo, ma in cui comincia ad emergere, quasi di nascosto, il nervo segreto di un’indicibile solitudine esistenziale. Non sembra esserci dialogo nelle chiacchiere di bar che aprono la pellicola e la stessa proposta di uno dei giovani di ballare con la protagonista viene fatta con un messaggio al telefonino e non attraverso i più obsoleti giochi di sguardi e di parole che erano di casa nei film di qualche anno fa. Per le nuove generazioni raccontate dal film (sottotesto più evidente nell’originale giapponese da cui questo remake trae spunto) sembra quasi che lo spazio di una tavolata sia diventato troppo grande. La distanza che separa un cuore da un altro, un pensiero da quello del vicino si è fatta paradossalmente incolmabile proprio in un’epoca in cui le comunicazioni sono infinitamente facilitate e praticamente globali.
Il non detto del film, quello che faticosamente estraiamo dalle immagini composte da un regista inesperto coadiuvato da una sceneggiatura troppo spesso claudicante, riguarda, quindi, proprio questo “secolo delle grandi solitudini”. Un secolo in cui ogni cosa sembra essere infinitamente vicina e proprio per questo si fa misteriosamente virtuale perché tutto sembra essere a portata di mano, ma niente lo è per davvero.
Il secolo della telecomunicazione, coi suoi videofonini e i suoi palmari, con i suoi fax e i suoi PC perennemente proiettati su Internet non è più il secolo della parola portatrice di senso (verrebbe quasi da pensare che i dialoghi tremendi di cui è farcita la pellicola siano una scelta volta a restituire la povertà di un nuovo buio culturale alle porte). Ma non è più neanche il secolo dei sentimenti: tutto si chiude in una realtà solipsistica, di solitudine estrema che succhia via la nostra voglia di vivere e ci fa tutti automi alla ricerca di un piacere che non ci sarà mai dato di raggiungere davvero come nel caso di Josh, prima vittima del film ed unica a conservare una sua sia pur manierata tridimensionalità psicologica.
La storia pure e semplice, con i suoi fantasmi che popolano la banda ultralarga delle frequenze radio e che progettano l’invasione del nostro mondo, diventa quindi una metafora in trasparenza della nostra realtà sempre meno capace di comunicare e che, proprio per questo, ci condanna ad un progressivo impoverimento personale.
Detto questo resta sotto i nostri occhi un film di cui è davvero difficile scrivere in considerazione della relativamente bassa qualità del prodotto.
Perfettamente calato all’interno di un meccanismo di produzione industriale e seriale, il film non aggiunge assolutamente niente di nuovo ad un genere che è sempre stato, implicitamente rivoluzionario e politico (perché far paura equivale e parlare di paura e la paura è tanto individuale, quanto collettiva e sociale). Con la sua regia sostanzialmente priva di mordente, con il suo ricorso ad una realtà perennemente sporca da rifiuto post industriale che sa tanto di Cronenberg o di Lynch (senza mai andare consapevolmente in nessuna delle due diverse direzioni aperte dai due autori che parrebbero essere presi a modello), l’opera finisce per annoiare anche se qualche effetto è qui e lì ben assestato allo stomaco dello spettatore più sensibile.
Ne viene fuori un pop corn movie senza particolare mordente, funestato dalle prove sotto tono di un novero di attori per niente aiutati da un copione scritto a più piedi (eppure i nomi sono quelli di Wes Craven e Kiyoshi Kurosawa: mica due qualunque).
Il tutto con le solite domande di contorno che impediscono la totale immedesimazione al racconto tipo: perché creature che volano nell’etere ed hanno la possibilità di materializzarsi ovunque decidono di farlo sul tettuccio della macchina occupata dai due protagonisti fuggitivi e non direttamente all’interno dell’abitacolo?
Sul finale post apocalittico che evoca atmosfere romeriane è meglio, poi, stendere un velo pietoso.
[settembre 2006]
(Pulse); Regia: Jim Sonzero; sceneggiatura: Wes Craven, Kiyoshi Kurosawa; fotografia: Mark Plummer; montaggio: Marc Jakubowicz, Robert K. Lambert, Kirk M. Morri; musica: Elia Cmiral; interpreti: Kristen Bell (Mattie Webber), Ian Somerhalder (Dexter McCarthy); Rick Gonzalez (Stone); Riki Lindhome (Janelle); Jonathan Tucker (Josh); produzione: The Weinstein Company, Distant Horizons, Neo art & logic; distribuzione: Eagle pictures; origine: USA, 2006; durata: 82’
