Pupi Avati ospite di Primo Piano sull’Autore 2008

Dalla nebbia del mattino affioravano le foglie dorate dell’autunno e, mentre loti arancio penzolavano gravidi dai rami, le mura di cinta di Assisi si mostravano serene ai turisti, chiudendo un paesaggio degno di Magnificat o de L’arcano incantatore. Il paragone cinematografico non è casuale poiché proprio nel paesino umbro Avati è stato ospite d’onore della XXVII edizione di Primo piano sull’autore – XVII Premio Meccoli Scrivere di Cinema, condividendo alcuni aneddoti della sua carriera nella settimana dal 17 al 22 novembre.
Il direttore artistico della manifestazione Franco Mariotti, affiancato dalla consulenza di Tullio Kezich, è ideatore di una retrospettiva che si concentra ogni volta su un protagonista della cinematografia italiana, ponendo le sue opere al centro di discussioni fra critici, registi, attori e professionisti del settore. La particolarità della manifestazione è quella di non essere una carrellata di opinioni tra “addetti ai lavori”, ma piuttosto un incontro annuale fra vecchi colleghi ed amici che da tempo condividono le sorti alterne, i sogni realizzati e le speranze disattese della settima arte. Negli anni si sono succedute numerose figure di rilievo come Carlo Lizzani, Ermanno Olmi, Dino Risi, Pietro Germi, Bernardo Bertolucci fino a Francesco Rosi, protagonista dello scorso anno. Questa edizione è stata pensata per Pupi Avati a quarant’anni dall’uscita di quel bizzarro Balsamus, l’uomo di Satana che trasformò un ex jazzista ed insoddisfatto direttore della Findus, nel regista che oggi lavora all’ennesimo capitolo della sua (auto)biografia filmica con Gli amici del bar Margherita.
Nei cinque giorni del Primo piano sono stati proiettati alcuni dei più famosi film di Avati come I cavalieri che fecero l’impresa, Regalo di Natale, Noi tre o Le strelle nel fosso. Durante il fine settimana invece si è entrati nel vivo delle discussioni con Avati che ha incontrato gli studenti dell’Università per stranieri di Perugia nel pomeriggio di giovedì, il dibattito del venerdì su ”Il nuovo cinema italiano e la rivincita dei generi”, per poi arrivare all’appuntamento conclusivo del sabato “lo (stra)ordinario quotidiano”, convegno tutto incentrato sulla poetica filmica avatiana.
La novità introdotta quest’anno è stata la rassegna parallela di opere prime e seconde intitolata La rivincita dei generi, tenuta a battesimo dallo stesso regista emiliano, spesso additato quale il più prolifico fra gli autori di film di genere attualmente in attività.
I Premi Meccoli, dedicati a chi scrive di cinema, sono andati ad Enzo Natta, critico per Famiglia Cristiana e fondatore di FilmCronache, per la carriera, a Natalino Buzzone come miglior critico, a Cinzia Romani quale migliore giornalista, Simone Anarchico de La valigia dei Sogni è stato il vincitore del premio per il miglior giornalista televisivo di cinema, mentre Federico Ramponi lo è stato per la radio. Riconoscimenti anche alle riviste Nocturno, periodico dedicato al cinema di genere diretto da Davide Pulci, e Cinecittà News, magazine online diretto da Giancarlo Di Gregorio. Tre invece i vincitori per la categoria Miglior libro sul cinema di autore italiano: Irene Bignardi per Le cento e una sera, Marco Pertozzi per Storia del documentario italiano e Valerio Caprara autore di Erotico. Un premio speciale è stato infine conferito all’attore Arnoldo Foà.
La manifestazione è stata organizzata con il supporto dell’Associazione Culturale Amarcord, del Centro Sperimentale di Cinematografia Scuola Nazionale di Cinema - Cineteca Nazionale, in collaborazione con l’ANCCI, il Centro Studi Cinematografici, il Comune di Assisi, Cinecittà Holding, Fondazione Umbria Spettacolo, l’Università per Stranieri di Perugia, l’Associazione Culturale ZabriskiePoint e con il contributo della Direzione Generale Cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Gli incontri
Pupi Avati è un grande affabulatore, un brioso contastorie capace di rendere interessanti persino le piccole umanità (e le grandi disumanità) di un gruppo di giocatori di poker, di restituire l’epica mistica dell’antico medioevo attraverso il moderno mezzo cinematografico, di introdursi con efficacia in storie intime, riuscendo spesso a dare loro un senso di universalità. Ma Pupi, con l’appoggio del fratello, è anche famoso perché capace di pensare e scoprire nuove dimensioni per interpreti logorati da uno "star sistem" piccolo-borghese che costringe un volto sempre nello stesso registro attoriale. Fuori e dentro il set, così come testimoniato dalle parole di Francesca Neri e Luigi Lo Cascio, anch’essi invitati ad Assisi, il direttore bolognese sa rendersi “uno di famiglia”, conquistandosi così la stima dei suoi collaboratori. Tutti gli interventi del Primo piano sull’autore hanno composto un mosaico di affetto che ha ridato carica al regista settantenne, “Io e mio fratello ripartiamo con una grande spinta da Assisi”, ha tenuto a ribadire congedandosi dai presenti nella serata di sabato.
Venerdì 21: C’è ancora spazio per il cinema di genere?
L’argomento centrale della giornata di venerdì è stato soprattutto la discussione sulla possibilità o meno del ritorno al sistema dei generi, un confronto fra facili ottimismi e sempre più disincantati pessimismi. Nelle parole di Franco Mariotti “credo nel cinema italiano e sempre ci crederò fin quando avrò voce”, è stata riassunta tutta la fiducia di un settore che ogni anno vede crescere il numero di professionalità ma che non ottiene i medesimi incrementi quanto ad incassi. “E’ possibile tornare ad un sistema di produzione” ha proseguito Mariotti, “che ha fatto cimentare tanti registi in linguaggi molto diversi e che ha costruito la fortuna della cinematografia italiana ed estera?”.
Come ripetuto in più occasioni dallo stesso Avati, il cinema di genere ha assistito al suo lento declino negli anni ’80, quando dai codici linguistici del poliziesco, dello storico, dell’horror si è gradualmente passati alla politica dell’autore, un’epoca sintetizzata dalla dicitura “diretto da…” mutata in un più personalistico “un film di”, ponendo su un piano prioritario la mano del regista. Ogni direttore ha ambito diventare riconoscibile ed è così che, sempre secondo Avati, “ognuno è diventato genere di se stesso. Olmi, ad esempio, fa i film di genere Olmi…”. Di quel periodo Pupi ha ricordato alcuni episodi, come l’atteggiamento spocchioso e compiaciuto con il quale lui ed altri giovani cinefili vedevano scappare gli spettatori dalle sale dove venivano proiettati i loro film dell’orrore come Balsamus l’Uomo di Satana o Tomas e gli Indemoniati. “Non vedevamo l’ora di eliminare i generi”, ha confessato, “soprattutto la commedia, che però era anche il genere che meglio raccontava l’Italia. Da quel momento iniziò un graduale disaffezionamento del pubblico nei confronti del cinema.”.
Ancora sul filo dei ricordi, Avati ha azzardato un bilancio ed un’ironica autocritica “Spesso mi si descrive come il regista dei generi. Eppure il musicale (Bix, Jazz Band) mi è andato male, lo sportivo (Ultimo minuto) mi è andato male, western non ne farò… L’unico genere che mi è andato discretamente”, ha detto con un sornione indugio “è stato il gotico, ma oggi la competizione con gli Usa ed il Giappone sull’horror è sul versante della tecnologia, difficile da sostenere...”
In un dibattito fra colpevolisti ed innocentisti, si è assistito al rimpallo delle tesi per cui secondo gli sceneggiatori sono i produttori la causa dell’agonia del cinema di genere, mentre secondo questi ultimi sono gli autori che non si prestano alla produzione per generi. Dal loro canto, i registi invece hanno parlato dei grossi ostacoli incontrati nel distribuire le loro opere ma anche problemi di carattere sistemico, come la difficoltà nell’esordire dietro la macchina da presa, la scarsa preparazione tecnica su elementi tipici di alcuni filoni come le scene d’azione dei polizieschi o del film d’avventura.
Numerosi interventi hanno poi descritto il rapporto di amore ed odio fra cinema e televisione, la sorella minore vista a volte come causa di tutti i mali della settima arte, a volte come un remunerativo sbocco dei prodotti cinematografici. Lo ha ricordato Luisa Carrini, che ha sottolineato come la produzione per generi sia viva ed attuabile quasi solo nel piccolo schermo. Tonino Valeri, assistente di Sergio Leone, ha indicato invece nella mancanza di passione per questo mestiere e nella eccessiva pigrizia le vere cause della decadenza della celluloide. Lo sceneggiatore Filippo Ascione ha citato la rivalutazione delle pellicole italiane di genere degli anni ’70 spinta da Tarantino, criticandola però come un’operazione quasi superflua perché sono state riproposte opere di carattere più che secondario. Sempre secondo Ascione, il vero problema dei generi è la miopia di cui soffrono numerosi produttori.
A distendere un po’ gli animi, sono giunte le battute del Maestro Avati che ha ricordato uno dei suoi pensieri, spesso citato durante le interviste, secondo cui “In Italia è facile fare il primo film, il secondo è improbabile, il terzo è impossibile”.
Sabato 22 dicembre: evviva il Maestro!
Il sabato ha chiuso l’appuntamento del 2008 ed ha visto una lunga quanto rapida rassegna di ospiti che hanno salutato Avati con le introduzioni di Steve delle Casa, Orio Caldiron e Franco Mariotti.
Valerio Caprara ha evidenziato come nel regista emiliano coesistano sia l’autore sia i generi, equilibrio sostenuto dalla consapevolezza di voler rappresentare e non fotografare la realtà. Con la mano leggera, quasi da favola, Avati avanza a passi sicuri nel territorio della memoria senza però tralasciare la perfidia, un alone sempre sotterraneo ed impalpabile delle sue storie. C’è un sublime senso di nostalgia che si schiude in ogni suo lavoro soprattutto in quei personaggi nelle cui vicende Pupi adombra la propria autobiografia.
Tullio Kezich, memoria storica del cinema nostrano, ha invece proposto un parallelo fra Avati e Fellini. “Avati studia Fellini e forse si è anche già laureato”, ha affermato in apertura del suo intervento. A rinforzo della sua tesi, il critico ha elogiato il carattere favolistico di numerose opere di Avati, includendolo fra gli eredi di “quegli sciagurati che si sedevano nudi nelle caverne attorno ad un fuoco mentre ascoltavano uno di loro che iniziava a raccontare quello che accadeva durante la caccia…”. In tono più elegiaco Kezich ha proseguito dicendo che “Pupi è un regalo perché ci racconta storie quando si è tristi e vogliamo sapere cosa succede dopo”.
Lino Capolicchio, protagonista de La casa dalla finestre che ridono, ha invece seguito un sentiero più ironico, ricordando di come iniziò la collaborazione con Avati, dell’atmosfera scherzosa nasceva sul set e del piacere di lavorare insieme.
Anche Francesca Neri ha ricostruito il suo percorso comune con Pupi, iniziato con La cena per farli conoscere in un momento in cui, come ha confessato l’attrice, “il mio lavoro non mi soddisfaceva più. Grazie al bel rapporto di amicizia che ne è nato, mi ha ridato la voglia di recitare. E poi”, ha proseguito la Neri “Pupi sul set è un vero giullare, riesce a trasmettere un entusiasmo come se fosse sempre alla sua opera prima, un entusiasmo che non vedo nei giovani registi”.
Il Maestro Riz Ortolani, autore di numerose colonne sonore per i film di Avati, ha ringraziato senza troppi giri di parole il suo amico per avergli permesso di lavorare su film belli, dandogli modo di impegnarsi fino in fondo, anche se “i critici”, ha accusato, “troppo spesso non prestano molta attenzione alla musica”.
Fra tanti sorrisi, complimenti e convenevoli, c’è stato anche il momento per una breve polemica legata all’incipit del discorso di Morando Morandini, fortemente critico nei confronti del tessuto sociale che ha portato per l’ennesima volta al governo persone insensibili alla cultura ed al cinema. Qualcuno, forse punto nella coscienza dalle parole del giornalista, ha interrotto in maniera poco garbata un intervento che, per ammissione del relatore, aveva lo scopo di delineare sociologicamente i contorni della crisi culturale di cui tutti si sono lamentati a più riprese.
Intervista con Avati
Cosa pensa di aver trasmesso alle future generazioni di registi?
L’idea che il cinema sia il mestiere più difficile del mondo. Io non so se questi ragazzi se ne siano resi conto, ma fare un film è una cosa molto, molto difficile e fare un film che in qualche modo assomigli a quello che vuoi fare è quasi impossibile. Poi la necessità di fare più cinema possibile, cioè in qualunque circostanza ed in qualunque condizione, fare in modo che quel film si faccia, più che parlarne. Mi sembra che questo sia un momento di caduta verticale perché troppi parlano di cinema, mentre quelli che fanno cinema sono sempre di meno. Penso sia il momento di parlare di meno ed iniziare a fare cinema, e forse così impareremo a farlo anche meglio.
Come lavora la coppia Avati-Avati?
Senza mio fratello molto di quello che ho fatto non si sarebbe potuto fare, non lo potrei fare, non lo potrò fare. Mio fratello ha un ruolo centrale nella produzione a livello autoriale, perché si occupa del casting e partecipa alla fase della scrittura, io scrivo la sceneggiatura e lui è l’unico che legge e mi dà consigli, valuta il primo montaggio, è l’unico che ha la possibilità di venire sul set e dirmi qualcosa, altrimenti sono molto insofferente nei riguardi dei grilli parlanti che sono ovunque. Penso che Antonio ed io siamo un’accoppiata che trova una realizzazione ed un appagamento professionale attraverso lo scambio reciproco.
Qualche anticipazione sul prossimo “Gli amici del bar Margherita”?
Toppetti di Assisi è il proprietario del bar dove si svolgono le vicende del racconto, un intreccio di storie di numerosi protagonisti. La cosa più entusiasmante è stato il cast che penso sia il più strepitoso della mia vita perché va da Abatantuono a Lo Cascio, Neri Marcorè, Gianni Cavina, la Chiatti, la Ricciarelli…
Nei suoi film ha raccontato spesso la vita di provincia. Quale è il suo rapporto con essa?
La provincia l’ho vissuta anche in modo estremamente penalizzante, perché mentre da un lato ti consente di conservare delle radici, delle prerogative che la metropoli disattende, da un’altra parte è anche spietata, crudele. Attraverso il “salotto buono” della provincia si creano delle gerarchie, vieni considerato o non vieni considerato... Insomma, la provincia credo di averla sufficientemente conosciuta e raccontata per dirne tutto il bene e tutto il male possibile.
Quanto di Pupi Avati c’è ne Il papà di Giovanna?
Il papà è un film che rappresenta in gran parte il mio rapporto con mia figlia che, fortunatamente non è Giovanna, nel senso che non è una ragazza priva di avvenenza, ma molto fragile ed esposta. Forse quando era giovane le sono stato troppo addosso e probabilmente non ho avuto fiducia nel suo modo di affrontare il mondo e l’adolescenza. Riconosco di aver corso il rischio di plagiarla, ma poi se l’è cavata bene. Nel film ho cercato di dare molta vitalità ai personaggi e l’accoglienza che ha avuto a Venezia è stata sicuramente un ottimo riconoscimento di questo lavoro. Sapevamo che il Papà era un film da palmares, ma non sapevamo bene quale premio gli sarebbe stato assegnato. Però la lettera che mi scrisse John Landis all’indomani della proiezione era così entusiasta e, essendo lui un membro autorevole della giuria, eravamo certi che il film avrebbe ricevuto qualche premio. Poi il premio al Miglior Attore mi lusinga molto perché nell’interpretazione di un attore c’è molto del testo ma c’è anche la regia.
La letteratura può dare ancora un contributo importante al cinema italiano?
Sì, ma il cinema può vivere anche indipendentemente dalla letteratura, cioè se noi restituiamo un ruolo agli sceneggiatori allora la letteratura può anche rimanere un contributo secondario. E’ evidente però che se continuiamo ad accattonare l’ultimo successo letterario, il libro che ha venduto milioni di copie, per fare un film si parte con un plafond di successo quasi garantito. Ma io non ho mai cercato nelle librerie lo stimolo per un mio prossimo film.
Cosa le ha lasciato il cinema di genere?
Il cinema di genere è stata una lezione incomparabile nei riguardi di come si riescano a dirigere gli attori. Germi e De Sica sono stati sicuramente i registi italiani che meglio e di più hanno saputo trarre dai loro interpreti.
Nel cinema paga di più la meritocrazia o il talento?
Io non so cosa sia la meritocrazia nel cinema. Il vero talento prima o poi emerge, è difficile soffocarlo, anche se ci sono delle condizioni per cui il cinema si deve continuamente misurare col successo commerciale. Non si può fare cinema senza un consenso da parte del pubblico. A sale vuote, a platee deserte non puoi continuare a fare il cinema.
