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Qingnian (Youth) - Roma 2009 - Concorso

Pubblicato il 21 ottobre 2009 da Lorenzo Vincenti


Qingnian (Youth) - Roma 2009 - Concorso

Ci ha lasciato stupefatti ed interdetti Qingnian, l’opera del regista cinese Jun Geng presentata in concorso a questa quarta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma.
Ci ha stupito perché onestamente ci si aspettava tutt’altro tipo di film da un emergente e talentuoso regista trentaduenne alla sua terza prova dietro la macchina da presa. Si attendeva quanto meno di vedere un risultato di maggior spessore rispetto a quanto in realtà messo in mostra, ossia un’opera per lo più labile, fragile nell’esposizione, di gran lunga inferiore ad ogni tipo di previsione azzardata alla vigilia. Certo, la consuetudine fortunata ed estremamente positiva che, nell’ambito dei Festival internazionali, ci ha permesso fino ad oggi di ammirare film di cinematografie distanti quasi mai inferiori ad uno standard di buona qualità è un fattore determinante, che ha contribuito non poco a provocare la nostra sorpresa di fronte ad un risultato certamente inferiore rispetto alla media dei prodotti provenienti da quella parte di mondo (film, tra l’altro, a cui difficilmente si avrebbe accesso). Alla luce di ciò l’idea di concedere comunque ad un giovane cineasta emergente gli onori della ribalta internazionale e la possibilità di essere conosciuto e far conoscere la propria arte a prescindere dal responso negativo suscitato da una sua opera, potrebbe apparire come un’operazione comunque interessante, utile soprattutto ai fini della creazione costruttiva di un futuro migliore per il giovane cineasta. Ma ciò attiene per ora al campo del destino e non a quello dell’incombenza di un Festival tuttora in corso, la cui attualità ci impone di adoperare la rapidità di pensiero, la reazione a caldo e l’istinto dell’occhio critico di fronte all’oggetto. Quello che conta per noi in questo momento è solo il qui e ora ed è per questo motivo che non possiamo esimerci dall’esprimere e ribadire con fermezza il profondo stato di sgomento a cui conduce un’opera come Qingnian. Non tanto per le diverse microstorie impressionate dalla cruda immediatezza delle HDCAM utilizzate per il film, frammenti di vita periferica cinese tutto sommato interessanti e potenzialmente forti, quanto piuttosto per una visibile approssimazione della messa in scena, mai rassicurante nei confronti dello spettatore. Quest’ultimo è costretto in 106’ di irreversibile anonimato a doversi confrontare ad esempio, con l’alterazione della sequenzialità filmica, da più parti e in più istanti violentata da un non sense che fa a cazzotti con il presunto intento iperrealistico del film, o con una inspiegabile presenza di scelte tecniche sterili che ad altro non servono se non a ricordare, sottolineare, scuotere continuamente l’atto di una visione frustrata e frustrante. Il film, di tanto in tanto, mostra la volontà di risollevare le sorti di questa condizione stagnante attraverso la forza dei suoi contenuti primordiali, quegli stessi che se non fossero stati oltremodo sviliti (o fossero stati raccontati in diversa maniera) da una forma raffazzonata, avrebbero rivelato interessanti tematiche come la condizione alienante della gioventù cinese, le arretratezze di un sistema ancora troppo lento e arcaico, le dinamiche interne di una società difficile, in cui le prospettive non presentano alcunché di interessante all’orizzonte se non la drammaticità e il romanticismo di gesti estremi o l’appeal del bullismo da strada. Argomenti, questi, non certo innovativi ma sempre in grado di catturare lo spettatore medio, specialmente quello lontano dalla cultura e dalle tradizioni orientali. Purtroppo però ogni minimo tentativo di fuoriuscire dal limbo della mediocrità in cui il film risiede, viene reso vano dalla comparsa improvvisa di momenti senza logica, di dialoghi inconcludenti, di situazioni stranianti alle quali è realmente difficile dare spiegazione. Come la “sfortuna”, ad esempio, che irrazionalmente si appiccica addosso ai protagonisti delle varie vicende, accanendosi oltremodo su di loro per tutta la durata dell’opera. Anche per questo il film alla lunga diventa praticamente insostenibile e la visione si appesantisce al punto tale da apparire irrecuperabile. Superato il primo segmento infatti (che narra dell’amore impossibile di una coppia di giovani, costretti a non sposarsi a causa del divieto imposto dalle famiglie) in cui almeno la narrazione procede in maniera semplice e lineare, senza virtuosismi eccessivi ma anche senza difetti clamorosi, la noia prende il sopravvento e le restanti porzioni di racconto cadono clamorosamente in uno stato di catalessi irreversibile da cui il film non uscirà più fino ai titoli di coda. A tutto questo concorre ovviamente anche la caducità del linguaggio diretto (non solo quello parlato ma anche quello prettamente cinematografico) che se in un primo momento sembra essere il frutto di una scelta consapevole, di una estetica al servizio della vita (già apprezzato nel cinema cinese contemporaneo) dopo alcuni istanti si tramuta in un esercizio fine a se stesso, troppo semplicistico, ripetitivo, addirittura banale in certi tratti. Una campionatura di espressioni verbali poco efficaci e di scelte estetiche impalpabili, troppe volte mascherate da una posticcia aura artistica costruita da Jun Geng. Insomma possiamo ben dire che l’unico film cinese in concorso in questa edizione del Festival capitolino non ha di certo lasciato il segno; anzi, è assai più facile sostenere come esso abbia veramente fatto di tutto per toccare le sponde dell’anonimato ed essere catalogato come un oggetto poco incisivo e tendenzialmente scarno. Una pochezza che, alla luce degli innumerevoli esperimenti passati, realizzati con le medesime modalità di Qingnian ma di tutt’altro spessore qualitativo, non merita di essere giustificata con l’esiguità dei mezzi utilizzati o con l’esigenza di proporre un tipo di cinema indipendente o “altro”.


CAST & CREDITS

Regia: Jun Geng; sceneggiatura: Geng Jun; fotografia: Qiu Zhen, Yuan Deqiang; montaggio: Wang Yaozhi, Li Hongqi; musica: Liang Long; interpreti: Liu Jin Cai (Li Zheng Min), Wang Guo Qing (Yuan Li Guo), Gao Tie Ying (Xu Gang), Liu Jin Bao (Shi Lei); produzione: Indie Workshop; origine: Cina, 2008; durata: 106’


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