Razzabastarda

Roman (Alessandro Gassman) è un romeno immigrato in Italia da circa trent’anni, invischiato in un losco giro di spaccio di droga e criminalità organizzata, che tenta di dare al figlio Nicu (Giovanni Anzaldo) un futuro migliore. Tuttavia il giovane sembra restìo a voler desiderare una realtà diversa da quella in cui si è trovato, suo malgrado, a vivere, e si vedrà costretto a seguire ineluttabilmente una strada che, per quelli come lui, sembra essere l’unica possibile.
Liberamente ispirata all’opera teatrale di Reinaldo Povod Cuba & His Teddy Bear (di cui è stato regista per ben tre stagioni), questa è la storia scelta da Alessandro Gassman per il suo esordio dietro la macchina da presa. Un debutto promettente, che stupisce sin dai primi minuti per l’arditezza visiva, se contestualizzata nell’orizzonte della cinematografia italiana, piuttosto restia alla sperimentazione. Le inquadrature ricercate e insolite, i movimenti di macchina azzardati e il bianco e nero fortemente contrastato portano immediatamente a pensare a un Romanzo Criminale con la fotografia di Sin City (c’è anche Michele Placido nel cast); in seguito appare chiaro che l’intenzione del regista non è certamente e solamente quello di raccontare una semplice storia di criminalità e violenza.
Razzabastarda è un film che tratta una realtà, quella degli immigrati, non molto dissimile da quella degli abitanti delle periferie italiane, dove droga, violenza e criminalità organizzata sono all’ordine del giorno, ma di cui i media spesso si scordano di parlare. Da anni impegnato nel sociale (è da tempo sostenitore di Amnesty International), Gassman affida alla macchina da presa la sua convinzione che l’arte possa ancora influenzare il pubblico, spingerlo alla riflessione, guidarlo, istruirlo. Scopo dichiarato del film è, infatti, quello di lasciare nello spettatore un segno indelebile, uno stimolo alla riflessione su un argomento che, secondo il regista, non gode in Italia della giusta attenzione.
Il tentativo di Gassman è di certo lodevole e coraggioso, ma realizzare un film che concili una trattazione esaustiva di argomenti sociali con gli stilemi e le modalità narrative del cinema (chiaramente differenti da quelli teatrali) ha i suoi rischi, soprattutto se tratto da una pièce, e il regista sembra non riuscire a evitarli del tutto. La recitazione è a tratti esasperata ed eccessivamente macchiettistica, la trama si concede delle pause riflessive che bene fanno a teatro, ma male al cinema, perché fanno perdere all’azione il ritmo funzionale al coinvolgimento dello spettatore. E ne risente il messaggio, oscurato da quel bianco e nero così esasperato e materico, che concentra tutta l’attenzione su di sé e sui volti dai lineamenti forti degli attori, dimenticando di essere un mero strumento espressivo. Scelta giusta è quella del cast, perfettamente in sintonia e mai deludente, con un giovane e promettente Giovanni Anzaldo e un grottesco ma comico Manrico Gammarota.
In sintesi, Razzabastarda è un film maturo, impegnato, dall’ammirevole e onesta volontà di riflessione sociale, un esordio alla regia promettente che a tratti dimentica, però, quale sia il mezzo al quale si affida per far sì che il suo messaggio colpisca con la debita forza.
(Razzabastarda) Regia: Alessandro Gassman; sceneggiatura: Alessandro Gassman, Vittorio Moroni; fotografia: Federico Schlatter; montaggio: Marco Spoletini; musica: Aldo De Scalzi, Pivio; scenografia: Sonia Peng; interpreti: Alessandro Gassman (Roman), Giovanni Anzaldo (Nicu), Manrico Gammarota (Geco), Sergio Meogrossi (Talebano); produzione: Cucchini, DAP Italy, Rai Cinema; distribuzione: Moviemax; origine: Italia; durata: 106’.
