Rendition - Detenzione illegale

Extraordinary rendition è la locuzione inglese con cui si designa un’azione (sostanzialmente illegale, o per lo meno "extralegale") di cattura/deportazione/detenzione, clandestinamente eseguita nei confronti di un "elemento ostile", sospettato di essere un terrorista. (Wikipedia)
Il grigio è la tonalità dominante, angosciosa, a tratti intollerabile di Rendition.
Grigio è il colore di Douglas Freeman, un giovane agente della CIA di stanza in Nord Africa che, dopo appena cinque mesi e mezzo di lavoro sul posto, si trova a dover assumere il comando dell’operazione spionistica volta a scoprire i mandanti di un attentato bomba nel quale ha perso la vita proprio il suo diretto superiore. Il compito che eredita dal suo diretto predecessore è quello dell’osservatore, del mandato del governo americano che non ha altra funzione che assistere alle torture che vengono inflitte ai sospetti di attività terroristica allo scopo di estorcere loro una confessione di colpevolezza. La sua dimensione resta perennemente ambigua: cosa pensa della tortura? Crede veramente che possa servire a qualcosa? Il silenzio ostinato che indossa come una maschera durante i momenti più truci dell’interrogatorio è quello di chi ammutolisce di fronte ad un orrore che non può approvare o è quello più spietato di chi compie il proprio dovere?
Grigio è anche il colore di Corinne Whitman, il capo dei servizi segreti che ha col tempo dovuto imparare a convivere con il peso di un lavoro terribile che la obbliga spesso a prendere delle decisioni terribili come quella di far arrestare e far sottoporre a tortura un uomo per il semplice fatto che potrebbe essere un terrorista. La sua è una posizione fondata sulla convinzione che le informazioni estorte sotto tortura possono essere fondamentali per salvare vite umane, eppure non c’è alcun trionfalismo nelle sue scelte, non c’è il piacere di chi sa di stare facendo bene il proprio dovere perché permane sempre, sull’altro piatto della bilancia, il fatto che per ogni vita salvata ce n’è sempre un’altra abbruttita nella violenza delle carceri, nell’orrore di strumenti di strumenti di tortura che sembrano venire da un medioevo terribilmente vicino. Certo Corinne è aiutata dal fatto che tutte le decisioni che prende sono prese in astratto, su pezzi di carta e documenti, su tabulati e idee. Corinne non ha a che fare con il peso ingombrante dei corpi martoriati e sviliti, ha a che fare solo con numeri e nomi e questo le permette di illudersi di essere meno responsabile delle sue azioni. Una perfetta sintesi del percorso della società americana che, consapevole di non poter torturare direttamente i sospetti per la semplice ragione che la sua stessa costituzione le impone di non poter condannare qualcuno se non dopo un processo, demanda il lavoro sporco a quel terzo mondo che già sfrutta in tutti gli altri modi possibili.
Grigio è anche il colore di Abasi Fawal, esponente ideale di questo terzo mondo e capo delle prigioni segrete nelle quali hanno luogo gli interrogatori (sarebbe più corretto parlare di tortura pura e semplice). Il suo è il lavoro più sporco, ma lui lo porta avanti con la pervicacia del capo di famiglia. Non tortura per ottenere informazioni, del resto quelle che deve ottenere non lo interessano minimamente. Abasi tortura perché gli è ordinato di farlo e perché il suo carattere si è ormai formato intorno all’atto terribile del compiere soprusi sugli altri.
Grigio è anche il colore di Anwar El-Ibrahimi sospettato di avere collaborato alla preparazione del pacco bomba nel quale è morto il capo di Douglas. Forse è colpevole, forse innocente. Il dubbio resta insoluto anche se lo stesso Douglas alla fine lo aiuta a scappare. A noi non è dato, però, di capire se lo fa perché da un certo punto in poi si convince della sua innocenza o se lo fa semplicemente perché stanco, mortalmente stanco di dover assistere alle sevizie cui è assoggettato continuamente. E anche la sua fuga finale e il suo ritorno in famiglia non riesce a chiudere i conti con una vita di prigione che si porterà sempre dentro come un fardello insostenibile.
Grigio, infine, è il futuro di Isabella El-Ibrahimi, moglie di Anwar, una donna che, ad un certo punto, si trova a dubitare della stessa innocenza del marito, a pensare che se è stato arrestato forse qualcosa di vero tra i capi d’accusa deve esserci.
Grigio è il colore di Kafka, del processo che significa condanna prima ancora che siano noti i capi d’accusa. È il colore della società americana del post 11 settembre che si auto condanna a convivere coi suoi incubi peggiori e col suo lato più oscuro. Una società che, immersa nella paura, cerca vie di fuga anche se questo significa negare libertà elementari a quelle persone che potrebbero, forse, rappresentare una minaccia. Una società che teme la sua stessa ombra e tutto ciò che è troppo “altro da sé”. Il crollo delle torri gemelle ha riportato a galla un passato fondato sulla sopraffazione e sul sangue, ha reso consapevoli gli stessi elettori che a tenere sulle strade le loro automobili è proprio quel petrolio che comprano dai temuti terroristi. Una società che ha vissuto sempre immersa in un solipsismo esasperato basato sull’idea assurda di bastare per sé, ha scoperto con orrore che, condivide il pianeta con altri esseri. Umani anche se non americani. E quindi alieni. Da ciò il dubbio.
E grigio è il colore del dubbio, dell’impossibilità di dare certezze assolute. Nessun personaggio del film è esente dal tarlo del dubbio. Nessun problema sollevato dallo script (davvero notevole nel suo virtuosismo) si libera dalle maglie troppo larghe eppure presenti dell’incertezza. E per questo anche la morale del film, come i personaggi che lo popolano, si fa ambigua.
La tortura in sé è vista come qualcosa di terribile. Eppure ogni dieci, cento, mille innocenti sviliti nelle percosse e nella privazione dei loro più fondamentali diritti, capita che si trovi anche un vero colpevole le cui confessioni possono salvare migliaia di vite. E allora come regolare la bilancia? Ha più peso un innocente torturato o settemila innocenti che possono continuare a vivere?
Interrogativo angoscioso che apre e chiude una pellicola fatta di milioni di altre domande che non possono trovare risposta. E in questo il film è estremamente rigoroso ed asciutto. Funziona egregiamente nell’incastro di storie che si riflettono l’una nell’altra sia pure con il gioco di sfasature temporali che permane tra un episodio e gli altri. Funziona negli interpreti, nei luoghi, nelle scelte registiche che ogni tanto scadono un po’ nel patinato, ma più spesso sono estremamente efficaci.
Non fornisce risposte Rendition. Soprattutto non fornisce possibilità di redenzione per personaggi condannati loro malgrado al più grigio dei futuri e quindi allo spettatore che ne condivide le sorti. Non c’è speranza alcuna anche se l’ultima scena sembra parlarci di una famiglia che si riunisce e di una nuova nascita. E a noi spettatori non resta che pensare che quel grigio sempre più si stinge nel nero di una colpa (di noi tutti) senza possibilità d’appello.
E il nero, infine, è il colore di questi tempi bui. Perché solo il nero si adatta ad una realtà, come quella nella quale viviamo, in cui un film come questo (o i politicanti di turno) può davvero far sembrare eticamente sensata la scelta tra la tortura di un sospetto e il milione di vite che è, forse, possibile salvare grazie alle informazioni in suo possesso. Indipendentemente dal fatto, come ci racconta Forman in Goya’s ghost, che, sottoposto alla corda, anche il più virtuoso degli uomini sarebbe pronto a firmare la confessione di essere, in realtà, una scimmia.
(Rendition); Regia: Gavin Hood; sceneggiatura: Kelley Sane; fotografia: Dion Beebe; musica: Mark Killian, Paul Hepker; interpreti: Jake Gyllenhaal (Douglas Freeman), Reese Witherspoon (Isabella El-Ibrahim), Meryl Streep (Corrine Whitman), Alan Arkin (Senatore Hawkins), Bob Gunton (Lars Whitman), Peter Sarsgaard (Alan Smith); produzione: Anonymous Content, Dune Films, Level 1 Entertainment, MID Foundation, New Line Cinema; distribuzione: Eagle; origine: USA, 2007; durata: 120’
