Ricky

François Ozon non si smentisce mai. Per quanto a volte possa essere accusato (anche giustamente) di eccedere nelle sue scelte visive e narrative, non si può negare il suo innato talento e la sua capacità di realizzare opere che, pur evidentemente pregne di “spirito francese” e fortemente radicate nell’universo cinematografico del suo paese, si rendono uniche e sfuggevoli a qualunque standardizzazione. La sua è un’arte puramente visiva, alla ricerca continua di un’estetica affascinante, a tratti kitsch e citazionista, altre volte più realistica e testimone di verità, ma sempre e comunque ispirata da una fantasia senza freni che mette in immagini i sentimenti.
Anche Ricky vive essenzialmente della mai prevedibile poetica del suo regista. Ozon infatti sorprende inizialmente lo spettatore con una prima mezz’ora ricca di intimità, gestita visivamente da uno stile semplice ma efficace, privo di formalismi e soprattutto decisamente ancorato alla realtà. Ma dopo, quando in questo terreno cinematografico realistico prende il volo la follia creativa dell’autore, senza minimamente stravolgere la matrice stilistica fin lì utilizzata, la sorpresa si raddoppia. L’avvenimento “soprannaturale” (che non sveliamo) che irrompe nella vita di una famiglia dalle poco solide basi economiche (madre, figlia, nuovo compagno della madre e bebè nato da quest’ultima unione sentimentale) non cambia assolutamente l’atmosfera del racconto. Quell’aria di realismo proletario, tinto da tonalità leggere, che si respira nella prima parte del film non viene intaccata in alcun modo e continua ad essere viva nel racconto sino a poco prima della conclusione, momento in cui viene lasciato più spazio alla poesia.
Ciò che spinge la seconda parte del film ad uscire fuori dagli schemi e che la rende qualcosa di totalmente spiazzante (ed anche molto divertente) è proprio questa antitesi tra lo stile visivo e l’assurdità degli eventi della narrazione. Forse, se questo film fosse stato diretto da un altro regista, il racconto sarebbe caduto facilmente nel ridicolo. Ma per fortuna dietro la macchina da presa c’è Ozon. Il filmmaker francese, ancora una volta, lavora in maniera splendida sugli equilibri interni all’opera che sta realizzando. Dirige in modo essenziale e, al contrario di altri suoi film, si dimostra capace di non farsi prendere la mano e di non perdersi in inutili esercizi di stile. E’ impressionante il modo con il quale Ricky riesca a sprigionare l’anima visionaria e l’inventiva del suo autore senza mai togliere gli occhi dagli affetti e dalle situazioni del quotidiano.
Proprio per questo motivo, il film sembra indirizzarsi verso una dimensione quasi religiosa, fideista, addirittura biblica, che rimane in bilico tra la razionalità e l’irrazionalità, tra la realtà e ciò che da essa non ci aspetterebbe mai. Ozon, infatti, mette in scena la difficoltà di credere in qualcosa al mondo d’oggi e ci racconta una storia in cui non è il soprannaturale che si fa carne a cambiare una vita, bensì la fede e l’amore nei suoi confronti.
(Ricky) Regia: François Ozon; sceneggiatura: Francois Ozon e Emmanuèle Bernheim, liberamente tratto da MOTH di Rose Tremain; fotografia: Jeanne Lapoirie; montaggio: Muriel Breton; musica: Philippe Rombi; interpreti: Alexandra Lamy, Sergi Lopez, Mèlusine Mayance, Arthur Peyret; produzione: Eurowide Film Production, Teodora Film; distribuzione: Teodora Film; origine: Francia/Italia; durata: 90’.
