Rosso Istanbul

Poche righe, il più possibile cortesi e rispettose, per liquidare l’ennesimo prodotto filmico di un fenomeno cinematografico del quale è difficile comprendere le ragioni di un gradimento sempre altissimo presso il pubblico italiano, se non inquadrandolo in quel contesto di cinema “popolare” (che va dal cinepanettone alla “commedia di costume”, se ancora se ne sanno fare in Italia) che certamente gli va stretto, a lui che invece si considera, o almeno ha fatto sempre di tutto per farsi considerare, un “autore” a tutti gli effetti. Da Il Bagno Turco (unico suo film che conserva una dignità ancora oggi degna di attenzione) in poi, Ferzan Ozpetek ha sempre dimostrato, il che sarebbe anche cosa bella e meritoria, di voler parlare a un pubblico numeroso e di media cultura, e salvo un paio di bersagli non proprio centrati, bisogna dargli atto che ci è sempre riuscito. Altra sua buona intenzione, che gli va riconosciuta con ammirazione, è stata quella di portare a sé il suo pubblico, proponendogli temi scomodi e, per quanto di stretta attualità, controversi, senza mai cedere al compromesso di abbassarsi ad offrire quello che le platee sempre più televisivizzate dell’Italia del primo decennio del nuovo secolo sembravano gradire e preferire. Con Le fate ignoranti (2001) e La finestra di fronte (2003), oggi francamente inguardabili, ha comunque sdoganato presso il pubblico italiano l’argomento “gay”, forse stigmatizzando solo uno degli aspetti dell’omosessualità maschile, il più vistoso e “borghese”, contribuendo tuttavia a modificarne la percezione in un popolo cattolico e di tradizione machista come il nostro. Purtroppo, complice il lusinghiero risultato al botteghino di alcuni dei suoi altri titoli, come Saturno contro (2007), Mine vaganti (2010), e Allacciate le cinture (2014), Ozpetek è arrivato, magari involontariamente, a sentirsi investito del ruolo di depositario unico di certe istanze dell’Italian Gay of Life, senz’altro in mancanza di una voce forte e autorevole del nostro cinema contemporaneo che in alternativa mostrasse un’omosessualità distante da quella dei salotti romani e degli studi televisivi di Maria De Filippi. C’era da sperare che in Rosso Istanbul, film tutto turco che segna, dopo i due titoli di esordio, il suo ritorno in patria, una certa cinefilia alquanto goffa e latente eppure avvertibile nei precedenti lavori, tornasse a gonfiargli le vele nella varietà dei registri – l’ambito è sempre comunque il mélo – da lui toccati anche nel libro omonimo che ne è la fonte ispiratrice: la nostalgia dell’infanzia, il legame con la patria e con gli affetti familiari, e la Storia, che mentre noi viviamo nel nostro piccolo eventi felici e meno lieti, trasforma noi e i luoghi, a volte con brutalità imprevedibile e inesorabile. Speranza vana. L’aria che tira in Rosso Istanbul è quella del “ritorno a casa” in luoghi da cui si è scappati per evitare le conseguenze di errori fatali commessi in un passato sepolto nella memoria a rischio continuo di tornare a galla. Il che dovrebbe giustificare l’eterna espressione da cane bastonato del protagonista, coinvolto nell’editing del libro di un suo grande amico di gioventù, con il quale ha probabilmente avuto in passato una relazione erotica molto adombrata e mai rivelata del tutto, allestendo intorno ai due una pleonastica aura misteriosa di ambiguità sessuale: cosa di cui francamente, nel 2017, potrebbe essersi ormai stufato anche il pubblico. Senza entrare nel dettaglio della trama – alto sarebbe il rischio di rivelare parti nodali di un plot inutilmente articolato in troppe microstorie male incastrate tra loro, e che con presunzione imbarazzante azzarda addirittura un tentativo di imitazione de L’avventura di Michelangelo Antonioni – va comunque messo agli atti un impianto narrativo che sa di vecchio e di fintamente letterario, ai limiti del fastidioso. Dai dialoghi improbabili e televisivi (ma l’effetto potrebbe averlo provocato il doppiaggio della versione italiana che si è scelto di mostrare all’anteprima per i giornalisti, e che ahimè uscirà in sala), alle reazioni incongrue di quasi tutta la parata di personaggi, impostati ciascuno secondo gli standard medi dell’eccesso compiaciuto e dell’antipatia fuori luogo, la vicenda procede inerte e faticosa, neppure scossa da quel paio di colpi di scena infilati a tradimento per darle un calcio in avanti. Sotto il profilo cinematografico, il film non ha granché di particolarmente elegante da offrire: sgradevole è anche l’abuso degli invadenti primi piani degli attori, che enfatizzano la letterarietà verbosa e di scarso valore delle battute che sono costretti a pronunciare. C’è forse un momento in cui la mano di Ozpetek tenta, anche riuscendovi, di accennare un minimo di cinema, ed è nella sequenza, guarda caso senza dialogo, in cui il protagonista e la ex amante del suo amico consumano un caffè all’aperto: vorrebbero e non vorrebbero confessarsi l’attrazione reciproca, e ciascuno cerca negli occhi dell’altro la complicità necessaria per rivelarsi, ma ogni volta che lo sguardo dell’uno sta per incrociare quello dell’altra la timidezza spinge uno dei due a guardare altrove…
Ma il difetto più grave di Rosso Istanbul, che probabilmente disorienterà il suo pubblico di fedelissimi (e soprattutto fedelissime) incuriositi di ritrovare sullo schermo la visione di un autore bene o male da sempre amato e seguito di una città fascinosa e leggendaria, sull’onda dei recenti fatti di cronaca che inducono purtroppo a non considerarla più come fino a nemmeno due anni fa regolare metà di viaggi e vacanze, è che al di là di un paio di vedute aeree notturne, Istanbul NON si vede, non c’è, non se ne avverte la fisica presenza, come accadeva invece ne Il bagno turco. Se ne sente parlare, sì, anche troppo, per bocca dei claustrofobici primissimi piani di cui sopra, ma sono considerazioni che restano pareri personali dei protagonisti mai sostenuti dal confronto immediato con qualcosa di mostrato e visibile, perdendo l’occasione di sollecitare, insieme allo sguardo, tutti gli altri sensi, che è di solito il miracolo del cinema, qui purtroppo assente.
(Rosso Istanbul); Regia: Ferzan Ozpetek; sceneggiatura: Gianni Romoli, Valia Santella, Ferzan Ozpetek; fotografia: Gian Filippo Corticelli; montaggio: Patrizio Marone; musica: Giuliano Taviani e Carmelo Travia; interpreti: Halit Ergenc, Tuba Buyukustun, Nejat Isler, Mehmet Gunsur, Cigdem Onat, Serra Ylmaz, Zerrin Tekindor; produzione: Tilde Corsi e Gianni Romoli; distribuzione: 01, Rai Cinema; origine: Italia, Turchia, 2017; durata: 115’
