Rotterdam 2005, La tigre ruggisce ancora

C’era chi temeva che l’avvicendamento al vertice del Festival di Rotterdam si sarebbe ripercosso negativamente sul prestigio e lo svolgimento della 34° edizione (26 gennaio - 6 febbraio), per altro ancora sotto lo shock del recente assassinio del cineasta olandese Theo van Gogh, avvenuto nello scorso novembre. Si è trattato di una separazione, quella dell’inglese Simon Fields, in cui si potrebbe sospettare, con qualche ragione, la longa manus di chi mal vedeva, politicamente, uno straniero alla barra di comando della maggiore manifestazione dei Paesi Bassi. Tuttavia la nuova direttrice unica, Sandra den Hamer (l’anno scorso c’era stata ancora coabitazione), può esibire dalla sua la forza inquivocabile delle cifre: un ulteriore, anche se piccolo, incremento di pubblico (ben 358.000 presenze!), una nutritissima partecipazione di autori (467 i filmmaker invitati) e di film, circa 800 per un totale di 1300 proiezioni in 24 sale programmate per dodici giorni più varie mostre ed esposizioni. Di contro, però, il numero dei giornalisti e degli ospiti stranieri è calato. Comunque sia e lasciando da parte le logiche dell’aritmetica, Rotterdam si concluso domenica con la vittoria nell’unica sezione a concorso, il ”Tiger awardas Competion”, di Nemmeno il destino di Daniele Gaglianone a coronamento di una presenza italiana quest’anno singolarmente nutrita (tra cui Amelio, Sorrentino, Marra, Costanzo ed altri). La rassegna olandese si riconferma quindi ricca di simpatie mediterranee (nel 2004 il premio del pubblico era andato a La meglio gioventù) ed attenta ai migliori risultati della nostra cinematografia, oltre che a sostenere - e non da ieri - bravi autori di tendenza come Tonino De Bernardi, Ciprì & Maresco o Gianikian/Ricci Lucchi. Ma soprattutto continua ad essere luogo altamente raccomandabile ai cinefili e agli amanti del cinema dove non mancano mai tanti film da vedere in anteprima o da recuperare dalla appena passata stagione 2004. Anzi l’imbarazzo delle scelte è sempre giornaliero e molto grande, con il risultato, quindi, che il Festival mantiene una grande capacità sintetica nel fotografare il meglio dell’esistente, ma anche che corre il rischio di trasformarsi in un gigantesco mole dove ci si perde nella babele dei trend emergenti e del Nuovo qualunque esso sia. Insomma proprio per proseguire la sua vocazione più genuina alla scoperta e il gusto per gli attraversamenti trasversali, si ha l’impressione che una maggiore severità di scelte in alcune sezioni non guasterebbe, né qualche piccolo colpo di pollice nell’ideazione di quelle sezioni stesse dove poco chiari sono i paletti e i criteri distintivi, per far in modo di non essere solo un grande supermarket internazionale, sterile e riassuntivo, della “qualità” via via pescata in ogni singolo paese. Detto ciò, il Festival della Tigre (così il suo bel logo aggressivo) non si caratterizza solo per l’imponenza “monstre” dell’offerta o per la tradizionale ricerca di alcuni “territori di confine” (per esempio quelli contigui del cinema d’artista e della videoarte o le belle scelte di “Cinema Regained”) ma ha offerto quest’anno alcune notevoli spedizioni in territori cinematografici assai poco noti. Oltre agli omaggi a Benoit Jacquot, al russo sperimentale Yevgeni Yufit e al giapponese Uchida Tomu (1898-1970), ci riferiamo in primis a “Sea Eyes” la rassegna che ha sorvolato a volo d’uccello gli immensi spazi del Sud-est asiatico, spostandosi per Thailandia, Vietnam, Indonesia, Singapore, Malesia e Filippine, soprattutto quest’ultima assai stimolante per la presenza di due cineasti fuori dai canoni e dalle righe: Khavn (De La Cruz) e il torrenziale Lav Diaz di cui si è presentato in maratona le dieci ore, girate in ben 9 anni, di Ebolusyon ng isang pamilyang Pilipino/Evolution of a Filipino Family, sorta di cronaca familiare alla Heimat I o a La meglio gioventù, ai tempi dello stadio d’assedio del regime di Marcos (1971-1987). Ma anche al di là dei singoli programmi, Rotterdam adempie ad un fondamentale compito economico, quello di offrire tramite l’Hubert Bals Fund e il CineMart dei concreti aiuti in denaro ai progetti e ai lavori indipendenti da ogni parte del pianeta. Grande porto di mare del cinema, Festival poco di glamour o di passerelle mondane, esso attira così, con la sua atmosfera informale e poco burocratica, con il suo abitus mentale aduso alla contaminazione, moltissimi filmmaker indipendenti che approdano nella città olandese nella speranza di ottenere finanziamenti per le loro proposte cinematografiche. Inoltre bisogna aggiungere che la Tiger Awards Competion, la selezione di opere prime e seconde, quest’anno non ha particolarmente sofferto della diretta concorrenza della imminente Berlinale, presentanto un programma di 14 film di grande rispetto. Oltre al vincitore Daniele Gaglianone, sono stati premiati anche El Cielo Gira di Mercedes Alvarez, diario poetico e semidocumentaristico (ma anche un po’ autobiografico) dove si esplorano gli abitanti e gli spazi di una piccola comunità rurale del Nord della Spagna e 4 di Ilya Khrzhanovsky, sorta di radicale ed allucinato viaggio nell’inferno dell’odierna Russia putiniana. Tra i due preferiamo di gran lunga il secondo (finanziato grazie al Fondo Hubert Bals) per il pessimismo crudele e disperato che lo contraddistingue ma anche per le sue accentuate idiosincrasie stilistiche, a partire da un creativo uso del sonoro. Tuttavia anche altri film avrebbero potuto essere, a ragione, inseriti nel Palmares finale della giuria, tra i cui membri figuravano il cineasta argentino Lisandro Alonso e l’iraniano Bohman Ghobadi, il cui film Lakposhtha ham parvaz mikonand/Turtles Can Fly si è aggiudicato il Premio del pubblico. Pensiamo ad esempio al brasiliano O amigo Dunor di José Edoardo Alcazar, in apparenza un videomelodramma sperimentale ma anche un sommeso grido di dolore contro le atrocità delle dittature sudamaericane; o al più tradizionale Las mantenidas sin sueños, altra opera-prima, questa volta di Vera Fogwill e Martin Desalvo che variando un tema abusato e patetico come il difficile rapporto tra una madre addicted e una figlia di nove anni, mixando i generi, alternando realismo e burlesque, ci consegnano un’acuta, agro-dolce radioscopia dell’Argentina di oggi. O ancora, solo per ricordare qualche altro titolo degno, due film da quel grande serbatoio di sorprese che rimane l’Estremo Oriente. Tramite un esplicito, maniacale abuso della macchina fissa, Takahashi Izumi in Aru asa soup wa/The Soup, One Morning aspira a trasmettere l’equivalente visivo di un caso di nevrosi estrema di cui è preda un giovane giapponese, per trasformare così il suo film in un intenso e claustrofobico close-up su una degenerazione patologica della vita di coppia. Sulla stessa linea stilistica, quella dell’estremo minimalismo realista, si situa anche il malese Sanctuary di Ho Yu-hang, film che si era già segnalato al Festival di Pusan dell’anno scorso mentre Frakchi/Spying Can ha un respiro e una complessità narrativa di maggior portata. Ad una prima lunga parte, tutta o quasi chiusa in una stanza dove sembra consumarsi un rito di violenza-sottomissione e, alla Jacques Rivette, un incontro tra vita e teatro (tramite il Delitto e Castigo di Dostoevskij), Whang Cheol-Mean sorprende nel finale lo spettatore occidentale con un colpo di scena che inquadra tutto il film alla sinistra luce di una pregante parabola politica sulla dittatura militare nella Sud Corea degli anni Ottanta. Vorremo ricordare, infine, oltre ai lavori del Concorso che pur con un qualche inevitabile tonfo si è mantenuto ad un livello medio piuttosto alto, solo un film nella selva delle numerossime proposte di Rotterdam. Vincitore del premio di Amnesty International, Dastaneh nataman/Story Undone, è l’opera seconda dell’iraniano Hassan Yektapanah che nel 2000 era stato già premiato a Cannes con la Camera d’Or con Djometh. Anche qui si parla di emigrazione e di fuga ma questa volta con tutto un ampio ventaglio di accenti, talvolta amari, a volte ironici, talvolta tragici, a volte comici. Ne sortisce un’opera complessa e diseguale, forse non perfetta ma comunque vitale, che ti prende in contropiede e ti spiazza. Un altro successo, ci sembra, del cinema iraniano e del Festival che può dichiararsi comunque soddisfatto di questa edizione. Anche se persino nella liberale Olanda non tutto è così semplice e trasparente come un tempo: ad esempio un corto documentario di Theo Van Gogh, Submission - Part 1 contro le violazioni dei diritti femminili da parte del radicalismo islamico, sarebbe dovuto essere presentato all’interno di una manifestazione su politica e cinema. Ma poi, all’ultimo momento, la produzione ha negato l’autorizzazione a proiettarlo.
[febbraio 2005]
