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SAINT ANGE

Pubblicato il 16 agosto 2005 da Alessandro Izzi


SAINT ANGE

Saint Ange si innesta con una certa voluminosa baldanzosità in quel filone di racconti soprannatural psicologici che trovano ne Il giro di vite di Henry James il più illustre e citato predecessore. Come nel capolavoro dello scrittore inglese a contare non è tanto la storia (qui come lì quasi del tutto assente) quanto piuttosto l’attenzione per il dettaglio minuto, l’ambiguità degli accadimenti rappresentati, l’incertezza che deve, da un certo punto in poi, permeare ogni singolo movimento di macchina ed ogni gesto degli interpreti chiamati sul set. Un film di atmosfere, insomma, che corre sul filo di lama del vuoto narrativo, in cui l’unica cosa che deve restare nello spettatore è quel senso di vertigine che si prova a correre sul nulla, sull’indefinibile per antonomasia. Come per ogni storia di fantasmi che si rispetti, inoltre, deve rimanere uno spazio non indifferente al non detto, una zona franca in cui la razionalità dello scetticismo possa mischiarsi indissolubilmente con l’inesplicabilità della vita lasciando lo spettatore incerto tra le due dimensioni. Nel caso del film in questione deve, dunque, sorgere spontanea la domanda: fino a che punto i fantasmi dei “bambini che fanno paura” che popolano il film sono una realtà soprannaturale e fino a che punto essi non sono, piuttosto, una proiezione distorta del tentativo di rimozione inconscia della gravidanza indesiderata della protagonista? E ancora sulla stessa linea: è proprio vero che la magione kubrickiana presentata nel film (Saint Ange è una scuola cattolica per bambini entro cui trova impiego estivo come custode la fanciulla) reclama davvero l’olocausto di una donna gravida a ripagare ingiustizie passate oppure quello a cui stiamo assistendo non è piuttosto un desiderio di autoimmolazione punitiva che ricorre alle emergenze inconsce dei fantasmi per materializzare un senso di colpa innominabile? Di certo il film è prima di tutto la messa in scena di un incontro tra due realtà complementari: da una parte abbiamo la protagonista che disperatamente nasconde anche a se stessa la propria gravidanza fasciandosi il ventre ed invocando l’aborto, dall’altra c’è la realtà della casa/scuola (una realtà sociale quindi) con i suoi lunghi corridoi, con i suoi luoghi del ricordo e della rimozione, che nasconde con uguale pertinacia l’orrore di un passato recente quando, durante la guerra, si rese necessario uccidere degli orfani malati per garantire la sopravvivenza di altri meno gravi. Per tutta la prima parte il film riesce a muoversi con sapiente maniera all’interno delle contraddizioni di questo incontro riuscendo nell’arduo compito di visualizzare un palese senso di attesa e di dolore. Le lunghe scene delle peregrinazioni della protagonista all’interno della casa mimano con chiarezza il senso di smarrimento della stessa persa nei corridoi della propria mente. Niente di nuovo insomma in questo gioco stilistico in cui il Kubrick di Shining prende sotto braccio l’Amenabar di The others alla ricerca di uno spavento tutto interiore che perde la glacialità geometrica del primo e il sincero afflato romantico del secondo. Poi ad un certo punto, rotto lo specchio carroliano della finzione ipocrita della facciata borghese cattolica (quello dei bagni che da direttamente sulle stanze nascoste dell’orrore), il film vira bruscamente verso una realtà fulciana assolutamente inaspettata, pur se già accennata nella scena del primo sogno della protagonista. Un Fulci, quello riletto dal regista, certo addolcito e privato degli aspetti più gore, ma pur sempre popolato di morti viventi biancovestiti che sfidano, con la loro ingombrante presenza, anche le logiche del più piano degli sviluppi narrativi. Ed è qui, sull’ingombrante citazione finale degli occhi bianchi dei fantasmi presa di peso da L’aldilà del maestro italiano, che il film barcolla, tentenna e alla fine cade nelle sue stesse contraddizioni e nei suoi stessi disequilibri. Se quella di Laugier è davvero la via francese all’horror, bisogna dire che questa via non conduce, purtroppo, all’originalità.

(Saint Ange); Regia: Pascal Laugier; sceneggiatura: Pascal Laugier; fotografia: Pablo Rosso; montaggio: Sébastien Prangère, musica: Joseph Lo Duca; interpreti: Virginie Ledoyen, Lou Doillon, Catriona MacColl, Dorina Lazar; produzione: Christophe Gans, Richard Grandpierre; distribuzione: CDI

[Agosto 2005]

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