Se mi lasci ti cancello
Tutti i film sono a loro modo delle storie d’amore.
Ci sono le storie d’amore travagliate e quelle liete, le commedie e le tragedie, i racconti colti dal vivo e i frutti dell’invenzione di un poeta, le storie che spudoratamente dichiarano i propri intenti (come i melodrammi) e quelle che disperatamente li nascondono camuffandosi in qualcosa di (apparentemente) diverso.
Ma qualche volta accade che un film riesca ad essere anche un atto d’amore. Verso una storia. Verso un gruppo di personaggi. Verso situazioni (ri)conosciute in prima persona. Verso gli attori. Verso la troupe. E, infine, verso il proprio stesso pubblico.
E proprio questo è, alla fine, Eternal Sunshine of the Spotless Mind (ci rifiutiamo a priori anche solo di prendere in considerazione l’assurdo e ammiccante titolo italiano): una vibrante storia d’amore tesa sul nulla della magica inconsistenza sulla quale è costruita la nostra stessa vita e, al tempo stesso, un sentito atto d’amore totale e omnicomprensivo.
Ma il film è anche un vero e proprio miracolo poetico come da tempo non ci capitava di vederne: un luogo semantico in cui la forma (stralunata, enfatica, sperimentale) si sposa perfettamente con il contenuto che vuole veicolare fino ad arrivare a quel punto utopico in cui non si riesce più a capire se sia nata prima l’idea o prima il linguaggio con cui essa viene comunicata.
Ed è, infine, anche il luogo di un incontro ideale tra le logiche astratte di uno sceneggiatore che da tempo ci ha abituati a complesse e labirintiche macchine narrative (Charley Kaufman: lo stesso di Essere John Malkovich) e l’estro registico di un autore sul quale non avremmo, sinceramente, scommesso (quel Michel Gondry reduce da un film non sempre brillante come Human Nature, ma autore di audaci videoclip per Björk). Un vero e proprio idillio.
Si vede fin dall’inizio che Gondry lavora sul filo sottile di un rasoio, su quel limite misterioso che separa il sublime dal ridicolo e, forse, uno dei maggiori motivi di fascino della pellicola di cui stiamo parlando sta proprio in quelle sequenze in cui più evidente è lo scarto tra le intenzioni e i risultati, in quei momenti in cui l’indubbia qualità visuale che il regista riesce ad imprimere alle proprie sequenze, non riesce davvero a tenere il passo con lo splendore labirintico della pagina scritta. È in questi momenti deboli del racconto, in queste brevi scene di raccordo che lo spettatore può divenire davvero quel lector in fabula di cui parla Umberto Eco e può rendersi conto di quella selva di infinite possibilità narrative che gli autori gli stanno mettendo davanti.
In perfetto equilibrio tra sentimento e intelligenza, tra il piacere aritmetico e matematico con cui si disegnano i capricci del caso nella mente del protagonista (in un film che ridisegna completamente il senso della soggettiva cinematografica) e il sentimento dell’insostenibile leggerezza dell’essere, Eternal Sunshine of the Spotless Mind è davvero, come diceva un critico anglosassone, quel “2001: odissea nel sentimento” che tutti noi stavamo aspettando.
Una gemma splendente, resa ancor più fulgida dalle sue molteplici imperfezioni (oltre che da un cast in evidente stato di grazia), un L’Année dernière à Marienbad, investito da una valanga di sentimento gioioso e dolente e riportato a misura d’uomo da quel sorriso autunnale tipico di quelle persone che hanno capito davvero il non senso dell’intera esistenza.
E che accettano di ripercorrere fino in fondo la magia di un sentimento anche, se, in conclusione, la fine è (già) nota.
[ottobre 2004]
(Eternal Sunshine of the Spotless Mind); regia: Michel Gondry; sceneggiatura: Charley Kaufman; fotografia: Ellen Kuras; montaggio: Valdís Óskarsdóttir; musica: Jon Brion; interpreti: Jim Carrey, Kate Winslet, Tom Wilkinson, Mark Ruffalo, Kirsten Dunst, Elijah Wood; produzione: Anthony Bregman, Steve Golin; distribuzione: Eagle Pictures