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SEABISCUIT

Pubblicato il 10 ottobre 2003 da Alfredo De Giglio


SEABISCUIT

Può un cavallo essere il simbolo della ri-Nascita di una nazione? Dopo il crollo di Wall Street del ‘29, e con la conseguente disperazione di milioni di americani ridotti in miseria, gli Usa si trovano a fronteggiare una situazione davvero drammatica: la diffusa indigenza (con un tasso della disoccupazione del 50%), proprio negli anni caratterizzati da una forte crescita industriale, favorita dal fordismo e dalla catena di montaggio, ma anche della elettrificazione e dalla conseguente invasione dei primi mass media (su tutti la diffusione della radio, che da bene di lusso diventa alla portata di tutti), provoca contraccolpi socio-psicologici profondi: il sogno (auto-perpetuato-si) s’infrange, e mentre alcuni non hanno la forza, né le possibilità, di reagire, altri emigrano all’ovest a cercar fortuna.
Questo quadro storico fa da teatro alle vicende di Seabiscuit, un cavallo mediocre, troppo piccolo, indolente ed indisciplinato, che unirà i destini di tre uomini sconfitti dalla vita, seppur in misura differente: Charles Howard, Tom Smith e Johnny ‘Red’ Pollard, interpretati rispettivamente da Jeff Bridges, Chris Cooper e Tobey Maguire. Howard è il tipico self-made-man che fugge da New York per San Francisco, dove diventa un magnate dell’automobile. La sua fede nel progresso ed in un futuro sempre più meccanicizzato crolla quando il piccolo figlio muore in un incidente stradale. Il suo matrimonio e tutte le sue certezze vanno in frantumi e decide, sotto l’influente spinta della nuova compagna, di formare una scuderia di cavalli. Come allevatore, quindi, decide di assumere un tipo taciturno e misterioso, un vero cowboy misantropo, conosciuto mentre salva dall’abbattimento un cavallo zoppo. L’ultimo tassello di questo trio (escluso il cavallo) delle meraviglie è un fantino ribelle, mezzo cieco e troppo alto per il ruolo, figlio di una famiglia benestante di irlandesi, messa in ginocchio dal crollo della Borsa, che non esita a mandarlo a lavorare lontano pur di assicurargli vitto e alloggio sicuro. Da tali premesse è naturale che la prima scelta per l’acquisto di un cavallo fosse quello che fino ad allora era da tutti giudicato un brocco, seppur figlio di un famoso campione. Nasce così la leggenda di Seabiscuit, un cavallo che ha realmente appassionato, con le sue vittorie, gran parte di una America piegata dalla sua stessa corsa verso un benessere tanto illusorio quanto devastante.
Il film interseca i due livelli, il macrostorico, con immagini di repertorio e un narratore che descrive il crollo dell’innocenza e la progressiva rinascita, e il microstorico, ovvero le tre storie intrecciate degli uomini che contribuirono a portare al successo Seabiscuit (o il contrario). Ben equilibrato nelle parti, il film regge per la grande qualità attoriale degli interpreti, che con i loro occhi regalano tre diversi gradi di dolore, di sofferenza, di disillusione: lo sguardo provato e ferito, ma non rassegnato, di Bridges (Tucker insegna), quello da sopravvissuto, di un mondo ormai scomparso, di Cooper, e quello rabbioso e stupito, di chi guarda il mondo per la prima volta, di Maguire. Ma ha la sua forza anche nel ritmo del racconto che ha ben dosato il naturale buonismo di queste operazioni e che privilegia il respiro epico della storia, pur nella naturale monodimensionalità ottimistica tipica (almeno a prima lettura) di certe favole.
Lo spettacolo complessivo è più che godibile, a patto di non farsi condizionare da pre-giudizi socio-politici (l’America di ieri come quella di oggi: dopo la crisi la rinascita, l’esaltazione dello spirito pionieristico degli Usa e tutto l’armamentario propagandistico che gioco forza si cela in queste operazioni) che sarebbe specioso far prevalere sulle sue indubbie qualità filmiche; Seabiscuit, infatti, è consigliato a chi possa apprezzarne la classicità della regia di Gary Ross (Pleasantville), interessante anche per l’uso del montaggio da découpage classico (come i raccordi, tra sequenze, sugli sguardi, sui campi/controcampi, sull’asse: un piccolo manuale di regia), e a chi abbia la voglia di farsi trascinare da un racconto sì edificante ma anche di forte impatto simbolico e filologicamente corretto. L’elogio dell’imperfezione (“Non prendi una vita e la butti via in blocco, solo perché ha qualche difettuccio ”), una lieve critica all’arricchimento a tutti i costi, e sul denaro come motore del mondo (“Come convincerli?... siamo in America: col denaro”), sono i valori (incarnati da singoli individui e non da collettività politiche astratte ed informi) che questa pellicola mette in scena.

[ottobre 2003]

regia: Gary Ross; sceneggiatura: Gary Ross, tratta dal libro di Laura Hillenbrand; fotografia: John Schwartzman; montaggio: William Goldenberg; musica: Randy Newman; interpreti: Jeff Bridges, Chris Cooper, Tobey Maguire, Gary Stevens; produzione: Kathleen Kennedy, Frank Marshall, Gary Ross, Jane Sindell; origine: USA 2003; durata: 141’; distribuzione: Buena Vista;

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