Sembra mio figlio
Il destino nel nome. Quello di Ismail, l’Ismaele biblico, è l’esilio, l’allontanamento forzato del figlio di Abramo, insieme alla schiava Agar, sua madre.
Compagna di viaggio reale nel mito, la donna si fa virtuale nella storia vera raccontata da Costanza Quatriglio in Sembra mio figlio, quale figura latente nella memoria di una separazione, viva nel reflusso quotidiano dei ricordi di un’infanzia d’amore, travolta da guerra e persecuzione, come nella frammentarietà delle parole sussurrate al telefono.
Ismail (Basir Ahang), scampato alle violenze subite in Afghanistan dal suo popolo, gli Hazara, vive ora in Italia con il fratello Hassan.
Dopo tanti anni, il passato che i due si sono lasciati alle spalle - universo di vincoli arcaici, forza e fragilità della minoranza perseguitata che ha inghiottito, forse definitivamente, la madre rimasta nel vicino Pakistan - sembra misteriosamente e ineluttabilmente spingere verso una soluzione di rientro i due giovani uomini.
Mentre per Hassan, chiuso in un autistico limbo di dolore, il ritorno sembra la scelta obbligata, per Ismail sarà più dura, dovendo decidere di lasciare ciò che sta prendendo forma, nel riverbero dalla presenza di Nina (Tihana Lazovic), come il timido principio di una vita nova, per rispondere al richiamo ancestrale, fatalmente legato al destino di un intero popolo.
E’ un oggetto cinematografico strano Sembra mio figlio. Cinema del reale dentro il cinema di finzione e viceversa. Tutto è ricostruito, tutto "sembra" vero. L’Iran sembra l’Afghanistan. Quello tra Ismail e Tihana sembra amore. Ismail sembra il figlio di sua madre, ma lo è davvero? In realtà, non importa. Le relazioni tra i personaggi sono importanti, brechtianamente, nel loro evocare sentimenti distanti ma familiari, e provocare una riflessione.
"Sembra mio figlio" è la frase che qualsiasi individuo adulto, uomo o donna, non può non pensare, guardando le immagini degli immigrati che arrivano nei nostri porti. E non è l’essere madre o padre a far scattare l’istintiva identificazione. Le relazioni si creano prima nella nostra mente, frutto di ciò che abbiamo ricevuto, di quello che siamo e stiamo diventando, come accade ai protagonisti dei film di Kore’eda.
Quando vediamo Ismail, non abbiamo bisogno di sentirlo parlare. La voce impressa nel suo silenzio delicato e inarrivabile è quella delle migliaia di storie che incontriamo ogni giorno scendendo in strada, nelle nostre città. Dentro quelle nuche erranti, negli sguardi svuotati è l’abisso dell’indicibile, che le vite nuove che intraprendono, le case nuove che abitano pretendono sia cancellato. Come voler ignorare l’esistenza dell’universo.
La Lazovic si fa per Ismail, specchio e cassa di risonanza al tempo stesso, rappresentando il coagulo di dolore ancora fermo, eco degli scontri fratricidi che hanno toccato da vicino la terra da cui provengono e sfiorato (non abbastanza da esserci da monito, a quanto pare) questo luogo, l’Italia, solo apparentemente salvo, in cui ora tentano di vivere. Continuiamo a essere spettatori inermi e abbagliati, di fronte allo scambio estremo e bellissimo tra sopravvissuti in cui si dibattono disperatamente, uno nell’altro, come nella relazione sbilanciata tra un non attore e la performance totale dell’artista, il pericoloso simulacro di un affetto, di una famiglia, e diversa. La ragione per cominciare a vivere.
Andare fuori non è mai facile per un regista. La Quatriglio sceglie di farlo disegnando lo spazio esterno come uno spazio chiuso. Non c’è senso del movimento nel viaggio a cui si dedica la seconda parte di Sembra mio figlio, non c’è respiro nel viaggio in Pakistan di Ismail perché è simul-azione, tuffo in apnea dentro di sé.
Nella stessa claustrofobia che il film si porta dentro sin dall’inizio e vede il protagonista muoversi come in uno scafandro, come nella tuta d’astronauta della Danco in N’capace, nell’inseparabile casco verde mela, levità e protezione, il viaggio in una terra improvvisamente lontana, nuovamente straniera, è ciò che è necessario per poter tornare. Il viaggio di Ismail è un viaggio a ritroso, dentro di sé, a incontrare i fantasmi di ciò che ha già conosciuto e con i quali dovrà accettare di convivere, fratelli, per sentirsi finalmente libero.
In questo, il contatto con la lezione del maestro Kiarostami.
(Sembra mio figlio); Regia: Costanza Quatriglio; montaggio: Letizia Caudullo, Marie-Hélène Dozo (separati da virgola); interpreti: Basir Ahnang, Dawood Yousefi, Tihana Lazovic; produttore: Andrea Paris, Matteo Rovere; distribuzione: Ascent Film; origine: Italia, Croazia, Belgio, 2018; durata: 103’