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Senza arte né parte

Pubblicato il 7 maggio 2011 da Giovanna D’Ignazio


Senza arte né parte

A distanza di dieci anni dalla sua prima regia (A.A.A. Achille) Giovanni Albanese gira il suo secondo lungometraggio, anche questo, come il precedente, ambientato in Puglia, e in particolare nello splendido Salento.

Il pastificio Tammaro dichiara fallimento. Il vecchio stabilimento chiude e uno nuovo, sempre di Tammaro (della moglie in realtà), viene aperto: un pastificio più vicino al nuovo modello di azienda proposto dalla globalizzazione. Ovviamente l’ulteriore automatizzazione dei processi produttivi comporta il licenziamento di Enzo, Carmine e Hassan, che si ritrovano disoccupati. L’ingratitudine di Tammaro nei riguardi dei suoi operai provoca il desidero di vendetta dei tre amici, che una notte distruggono tutta la merce nel magazzino dell’imprenditore. Il giorno dopo Tammaro li assume come guardiani del magazzino che loro stessi hanno violato, a milleduecento euro al mese. Da dividere in tre, ovviamente! L’imprenditore infatti ha deciso di investire in opere d’arte contemporanee, che saranno conservate nel deposito che il trio dovrà sorvegliare. Tra merde d’artisti e orinatoi duchampiani, ispirati da Marcellino, il fratello truffaldino di Carmine, i quattro decidono di copiare le opere, sostituirle e vendere quelle vere. Un po’ per necessità economiche, un po’ per motivi di orgoglio personale, i tre, con l’aggiunta di Marcellino, si improvvisano falsari e giustificano i primi guadagni dichiarandoli provenienti dalla vendita di una sciroppata di melograno speciale fatta per hobby da Carmine, che diventerà la vera attività dei tre, quando la truffa si rivelerà fallimentare.

Crisi industriale e crisi esistenziale sembrano andare di pari passo, in questa Italia americanizzata dove nessuna tradizione sembra poter sopravvivere, fatta eccezione forse per l’imperituro provincialismo che pare essere l’ultimo collante culturale (se così si può definire) rimasto. Dall’arte del mestiere (la pasta fatta in casa) al mestiere dell’arte (il pane dipinto e incollato su tela), passando per l’imprescindibile catena di montaggio (il pastificio Tammaro) gli italiani non sanno più di che pasta sono fatti e s’improvvisano truffaldini artisti della contemporaneità, ovviamente con insuccesso, o meglio, con apparente successo, comunque destinato al fallimento. La necessità di riciclarsi, di emanciparsi in nome della globalizzazione e dei nuovi valori culturali, è però, ipocritamente sentita e perseguita solo al fine di conservare la parte più deleteria della tradizione: Enzo diventa un falsario di arte contemporanea perché non sopporta che sia la moglie a riportare a casa lo stipendio più alto, mentre Carmine vuole riconquistare la ex-moglie, la quale lo ha lasciato dopo aver sopportato anni di tradimenti. Certo, la crisi economica incalza, l’automatizzazione della produzione in serie miete vittime (dal punto di vista pratico, perché comporta i licenziamenti, ma anche esistenziale, perché aliena, deprime e rende apatici) e gli italiani riscoprono due capisaldi, in positivo e in negativo, della cultura popolare nazionale: mestiere e truffa, entrambi fatti ad arte (più o meno). Tuttavia la truffa non è più arte popolare (come nel dopoguerra di Totòtruffa ’62 o de Il bidone di Fellini), ma imprenditoriale, come dimostra bene Tammaro. Al precario non resta che il mestiere (anche se le aziende preferiscono il lavoro in nero e a basso costo degli extracomunitari), al quale tenta inutilmente e stupidamente di sottrarsi (come fa il giovane Marcellino, che cerca il guadagno facile attraverso la criminalità locale, ma si rivela essere l’unico competente nel riconoscere i materiali giusti e i metodi di realizzazione adeguati per la riproduzione delle opere), mentre non si accorge che quella è l’unica via che ha per riconquistare la sua dignità e portare avanti la sua lotta contro un sistema fraudolento che lo umilia ed esclude. Alla fine, infatti, anche se ironicamente, è la sciroppata di melograno e cannella auto prodotta che contribuisce a riportare l’arte del mestiere a essere una realtà onesta, coesa e magari un giorno, forte e non ignorabile.

Senza arte né parte è una commedia simpatica che si limita ad accennare ad alcuni temi chiave della società attuale senza voler approfondire un discorso critico, ma senza neppure riuscire a essere davvero divertente. Bellissime le ambientazioni, interessanti la fotografia poco nitida e l’interpretazione degli attori, ma l’idea di fondo che avrebbe potuto dare vita a un lavoro brillante, perde forza nella realizzazione così come è stata fatta.


CAST & CREDITS

Regia: Giovanni Albanese; sceneggiatura: Giovanni Albanese, Fabio Bonifacci; fotografia: Ramiro Civita; montaggio: Carlotta Cristiani; musica: Mauro Pagani; interpreti: Giuseppe Battiston (Carmine), Vincenzo Salemme (Enzo), Giulio Beranek (Marcellino), Mariolina De Fano (madre di Carmine), Daniele Esposito (Savino), Donatella Finocchiaro (Aurora), Hassan Shapi (Bandula), Paolo Sassanelli (Alfonso Tammaro); produzione: Lumière & Co. con la collaborazione di Rai Cinema; distribuzione: 01 distribution; origine: Italia; durata: 90’.


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