SENZA DESTINO

Un’opera plumbea che osa violare uno dei tabù più radicati nell’immaginario di ognuno, giungendo a raccontare l’inenarrabile (dal punto di vista cinematografico, s’intende): la “vita quotidiana” nei campi di concentramento nazisti.
La macchina da presa non si arresta più pudicamente sulla soglia dei Lager, come avveniva nelle più celebrate punte di riferimento del genere, Schindler’s List e Il Pianista e varca ora i cancelli di Auschwitz, Buchenwald e del meno tristemente noto Zeitz, mostrando in cosa consistesse nella prassi l’esistenza in simili luoghi. Un’operazione tanto più necessaria in quanto i testimoni diretti di quella tragica pagina della Storia stanno progressivamente scomparendo.
Quanto appena detto non deve però trarre in inganno, dato che siamo ben distanti dal dominio del documentarismo. Lajos Koltai debutta qui alla regia, ma aveva già lavorato in più di settanta film come direttore della fotografia: e si vede. Probabilmente il cineasta ungherese finisce per sacrificare alla compattezza del racconto filmico una ricerca un po’ troppo insistita dell’immagine raffinata e preziosa (ci dice, come già Stanislavskij prima di lui, che bisogna sforzarsi di trovare anche quella parte di bellezza presente nell’orrore), su cui poi indugia con evidente autocompiacimento. E paga pesantemente dazio anche alla musica ridondante di Morricone, il quale non rinuncia ai soliti picchi epici che costituiscono la sua più marcata cifra stilistica, ma stridono qui un po’ troppo con l’ambientazione e col tema trattati (“fuori luogo” soprattutto l’usuale canto femminile evocativo-nostalgico).
Senza Destino non è dunque il “solito” film sull’Olocausto. La diversità deriva alla pellicola essenzialmente dalla sua fonte letteraria, il bellissimo romanzo di Imre Kertész Essere Senza Destino, la cui tormentata storia la dice lunga sulla natura controversa del messaggio che contiene. Solo dopo il crollo del Muro di Berlino è stato finalmente riconosciuto il giusto valore al libro, cosicché il conferimento del massimo riconoscimento letterario mondiale è parso come una tardiva ma definitiva acquisizione di Kertész tra i grandi scrittori contemporanei.
Il film ha avuto una gestazione - fatte le debite proporzioni - quasi altrettanto lunga e travagliata: la sua realizzazione si è protratta in tutto quattro anni, uno dei quali interamente speso nel reclutamento degli attori. Il dato è significativo, poiché ci rivela come il regista fosse coinvolto nel progetto già due anni prima dell’attribuzione del Nobel al suo autore.
Probabilmente rispetto al romanzo viene meno l’ispirazione legata al grande tema dell’Assurdo, tanto caro alla cultura ebraica (la Noia come condizione esistenziale nel Lager e al di fuori di esso, l’attesa vana e immancabilmente delusa di una salvezza avvertita come impossibile), ma è evidentemente assai arduo per il cinema, votato ontologicamente a mostrare e dunque a prender posizione sempre e comunque, restituire sottigliezze e allusioni più congeniali al testo scritto. Eppure è senza alcun tipo di senso di inferiorità che Koltai si è accostato al romanzo e ha tentato di riprodurne lo spirito, con esiti però solo parzialmente soddisfacenti.
La prospettiva di Koltai pare piuttosto quella di un’Illuminista: è il regista stesso a dichiarare che quanto lo interessava maggiormente era la centralità nella vicenda dell’Uomo e il suo tentativo costante di comprendere i fatti sottoponendoli al vaglio della Ragione (cosicché finisce per illuminarli, da abile fotografo qual è, con evidente adesione, ma senza troppe sfumature). Nelle intenzioni del regista il film avrebbe dovuto tentare di raffreddare quanto più possibile la temperatura emotiva di una materia invece particolarmente incandescente. E anche in ciò, purtroppo, non sempre ha successo.
Questo film sembra dunque testimoniare efficacemente come una bella fotografia non sia sinonimo di grande regia. E come probabilmente solo quest’ultima sia in grado di guardare direttamente in volto l’Orrore e di penetrarne e restituirne l’essenza.
(Sorstalansag - Fateless) Regia: Lajos Koltai; soggetto: dal romanzo Essere Senza Destino di Imre Kertész; sceneggiatura: Imre Kertész; fotografia: Gyula Pados; montaggio: Hajnal Sello; musica: Ennio Morricone; scenografia: Tibor Lazar; costumi: Gyorgyi Szakacs; interpreti e personaggi: Marcell Nagy (Gyurka), Aron Dimény (Bandi Citrom) Andràs M. Kecskés (Finn); Jòzsef Gyabronka (Uomo Sfortunato); Endre Harkànyi (il vecchio Kollmann); Janòs Bàn (Padre di Gyurka); Daniel Craig (sergente americano); produzione: Peter Barbalics; distribuzione: MEDUSA; origine: Ung/Ger/GB 2005; durata: 133’; web info: Sito ufficiale.
