Shine a Light

Van Helsing (alle ceneri di Dracula il vampiro, su cui finalmente può avere l’ultima parola): Foushta!
(finale di Dracula Morto & Contento, Mel Brooks 1995)
Shine a light è un film sull’estinzione. Un film sull’estinguersi, sull’auto-estinguersi volutamente. Che fine fa Martin Scorsese, in scena – esagitato, nevrotico, incontrollabile, isterico, balbettante, e in bianco e nero – per tutto il ‘prologo’ di preparazione alla ripresa del concerto, dopo che l’esibizione dei Rolling Stones ha inizio? Finalmente riceve l’agognata setlist dei pezzi che saranno eseguiti dalla band al Beacon Theatre di New York – Jagger e gli altri gliel’hanno fatta sudare, Marty ci ha perso il sonno, voleva conoscerla con largo anticipo per organizzare tutto, ogni inquadratura e posizione delle cineprese nel minimo dettaglio (si, siamo dalle parti dell’esatto opposto di Last Waltz...): “ecco la setlist – Jumpin’ Jack Flash!”, esclama dalla cabina di comando – poi scompare dal film. Scorsese è Departed.
Con questo documentario giunge ormai a totale consolidamento la sensazione che il cinema di Martin Scorsese non si sia mai realmente affrancato dalla dissolvenza finale che colpiva i protagonisti di Gangs of New York (le Torri, le Torri son crollate...) – e anche quest’ultima tornata di rockumentaries segue questa tendenza: passare a Corey Harris il testimone del narratore-alterego nel bellissimo Feel like going home per la serie The Blues, ed evitare d’incontrare di persona Bob Dylan per l’incredibile intervista-testimonianza che costituisce l’ossatura del clamoroso No Direction Home.
Questo per molti versi ‘estremo’ e consapevole passo indietro di un cinema che sino ad allora era stato completamente, ossessivamente e prepotentemente in soggettiva è un’esplicita presa di posizione scorsesiana che contagia irreparabilmente le carni di The Departed, profondamente segnato dalle ferite sanguinanti dei tagli rabbiosi inflitti da Scorsese e Thelma Schoonmaker alla materia filmica.
Sino al finale, dichiarazione d’intenti e sardonica rivendicazione di superiorità autoriale: la talpa all’attacco della cupola dorata – di Hollywood, e dello spettacolone rock’n’roll annacquato e liofilizzato (ruffianissimi cori, patinatissime sezioni di fiati, assoli di Keith Richards sempre più fuori posto) che son diventati gli show degli Stones post-Exile on Main Street.
Quello che rende Shine a light un documento interessante e in alcuni punti avvincente non è tanto il concerto (mai esaltante, nemmeno con l’entrata in scena delle prorompenti e graditissime curve di Christina Aguilera), quanto questo sintomo continuo e costante di lotta titanica tra due ego giganteschi come quelli di Mick Jagger e Martin Scorsese, una tensione in alcuni punti quasi Herzog/Kinskiana, dopo tutti i ‘dispetti’ del cantante bastardo al regista ultra-perfezionista nell’organizzazione pre-concerto documentati nel prologo del film.
Nel pezzo di apertura, Jumpin’ Jack Flash come già ricordato, Marty e tutta la squadra di operatori chiamata a seguire il concerto (Richardson, Toll, Elswitt, Kuras, Lubetzki...) arrancano, sembrano totalmente allo sbando: Jagger sfugge continuamente ai lati del quadro, esce dall’inquadratura, dribbla gli operatori, che sono costretti più volte a repentini e continui cambi di focale per immortalare le dita che scivolano veloci sui manici delle chitarre di Keith e di Ronnie Wood.
Il match ha avuto inizio: a volte avrà i caratteri di un corteggiamento, un tentativo amorevole di Scorsese di mostrare affetto verso questi quattro scalmanati che, con la solita baldanzosa arroganza da teppisti di strada arricchiti, chiaramente non vogliono stare al suo gioco. Ma più spesso, si tratterà di giocare duro, e sporco: magari infiltrandovi spezzoni di vecchie interviste e apparizioni televisive in giro per il mondo, guardando le quali si insinua sempre più l’idea che Scorsese non voglia affatto celebrare la longevità della band (e del suo cinema!), convinto che si possa fare rock (e film...) pure a sessant’anni, dopo decenni di carriera, ma piuttosto dimostrarci come la passione, prima o poi, lasci immancabilmente spazio alla professione e alla professionalità.
Shine a light diventa allora versione-documentario di The Aviator (volendo anche l’illuminazione e la scenografia del Beacon Theatre somigliano alle atmosfere di quel film), altra opera su commissione dove venivano comunque a galla delle prorompenti fuoriuscite di grandissimo cinema scorsesiano (su tutte, l’insuperabile quarto d’ora di Hughes chiuso nella saletta di proiezione a farsi portare le bottiglie di latte di cui nutrirsi).
E come nel biopic su Hughes anche in Shine a light ad un certo punto, finalmente, scocca la scintilla: si tratta della fuggevole sezione del concerto dedicata al blues e al country, con Richards all’acustica e Ron Wood alla slide guitar: le luci si abbassano, lo show frastornante lascia lo spazio ai duetti tra l’armonica di Mick Jagger e la chitarra scorticante della guest star Buddy Guy.
Ed ecco Scorsese, una buona volta totalmente in affinità con quanto succede sul palco, subito a fasciare l’esibizione dei Rolling Stones con commoventi carrelli, struggenti primi piani, magnifici dettagli degli strumenti all’opera. Sono solo pochi attimi, poi è tutto nuovamente frammentato, frazionato, dissezionato dopo l’esplosione (del cinema?).
Riprende la lotta, sino al finale in cui, come Porky Pig nella sigla di coda dei cartoons Looney Tunes (e que-e que-e questo è tutto...), ecco ricomparire in scena Martin Scorsese in una brevissima sequenza ricostruita in una New York digitale totalmente finta (un sogno lungo un giorno?) all’esterno del Beacon Theatre, a sbracciarsi segnalando all’operatore – impegnato in una falsa soggettiva di Jagger – di inquadrare il cielo di plastica in cui la luna si va trasformando nel simbolo-boccaccia dei Rolling Stones: “up! up! up! up!”.
Ha ben poco da lamentarsi stizzito Mick Jagger adesso (“il film è noioso, niente di che...”): Scorsese ha fatto saltare il banco con il suo bluff conclusivo completamente gratuito ed inventato, ha firmato l’ennesimo sberleffo nei confronti dell’immagine contemporanea in cui oramai non si sente più addentro, ha dimostrato ancora una volta come il suo occhio-talpa sia sempre di più sabotatore – come Mel Brooks alla fine del duello continuo per avere l’ultima parola nei saluti transilvani scambiatosi lungo tutto il corso di Dracula Morto e Contento con Lieslie Nielsen/Nosferatu. Foushta.
(Shine a Light); Regia: Martin Scorsese; fotografia: Robert Richardson; montaggio: David Tedeschi; musica: Rolling Stones; interpreti: Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood, Charlie Watts, Buddy Guy, Jack White Christina Aguilera, Bill Clinton, Hillary Clinton; produzione: Fortissimo Film; distribuzione: Bim; origine: Usa, 2008; durata: 122’; web info: sito ufficiale
