Shutter Island

Diamo a Scorsese quel che è di Scorsese. Diamogli il merito di aver rinnovato Hollywood con la sua estetica esplicitamente violenta, di averci regalato personaggi struggenti ed indimenticabili, di essersi saputo rinnovare negli anni, di aver cambiato continuamente registro rimanendo sempre lo stesso. Riconosciamogli la sua capacità registica, unica ed irripetibile, un senso del cinema che sa di arte e spettacolo, un fiuto per storie che molti avrebbero rifiutato di portare sullo schermo. Apprezziamone il gusto cinefilo, il suo infinito amore per il cinema di altri maestri, il suo sguardo iperrealistico a tratti sconcertante, a tratti commovente. E’ per tutti questi motivi che non possiamo esimerci dal dargli tutto ciò che gli spetta anche per il suo ultimo Shutter Island. Perché Scorsese è un maestro, e riconoscergli un (mezzo) passo falso non può di certo intaccare la sua grandezza. Shutter Island non convince fino in fondo. A giochi fatti, è tanto fumo e poca sostanza, un film a sprazzi di alta fattura ma inconcludente, dallo sviluppo narrativo scontato; un film che si rifà al grande cinema del passato (di genere e non solo), mischiandone tanti, forse troppi, elementi, e senza farlo totalmente proprio, senza saperlo rinnovare. La mano di Scorsese è comunque evidente, sia nella costruzione dei personaggi, sempre al limite della disperazione, sia nella costruzione del racconto cinematografico, veloce ed incalzante anche grazie allo splendido montaggio della fedelissima Thelma Schoonmaker.
Di Shutter Island non possiamo mettere in dubbio la bellezza dell’impianto visivo, accattivante, angosciante, cinefilo. Il regista posiziona la macchina da presa subordinando sempre i suoi personaggi alla tortuosa scenografia. Il fascino del film risiede proprio in questo aspetto. E’ l’isola rocciosa sperduta nell’oceano, in cui sono rinchiusi i malati di mente più pericolosi del paese, a dominare lo schermo, con la sua atmosfera misteriosa, i suoi edifici freddi e silenziosi, i suoi angoli sperduti, con la sua apparenza di non-luogo. Shutter Island è un’opera interamente costruita sulla sua ambientazione, che ruota attorno ad essa. Scorsese struttura la labirintica narrazione seguendo proprio le linee a tratti sghembe ed irregolari, a tratti rigorose, della scenografia. Tenendo bene in mente l’avanguardia espressionista, il noir classico ed il cinema di Roger Corman, il regista di New York insieme a Dante Ferretti dà vita ad un universo cupo, tetro, claustrofobico, opprimente, in cui l’agente federale DiCaprio, con il suo nuovo assistente Mark Ruffalo, porta avanti la sua investigazione e cerca la verità sulla scomparsa di una paziente. Una verità nascosta proprio nei confini dell’isola stessa, tra le rocce a capofitto sul mare, tra le sue buie scalinate, sotto alle mura alte ed imponenti del suo ospedale psichiatrico.
La macchina da presa in alcuni momenti indaga, scruta, si nasconde, in altri invece fa sentire nettamente la sua presenza, rendendo ancora più angosciante il racconto, facendoci sentire il peso della violenza (fisica e psicologica) che avverte il protagonista ed entrando nella sua mente. Tutto bello, tutto molto affascinante, ma purtroppo Scorsese si fa prendere la mano: si perde ciclicamente in flashback sugli orrori del nazismo ed in inserti onirici, sì suggestivi e sì necessari alla ricomposizione del puzzle finale ma che addormentano la narrazione, specialmente nella parte centrale. Il film, così come la mente del protagonista, si va pian piano sfaldandosi in un vortice folle e paranoico senza via d’uscita, in cui tutto ciò che all’inizio non era ciò che sembrava, ora è esattamente ciò che sembra. Realtà, immaginazione, sogni, ricordi si fondono in un tutt’uno troppo lineare, in una massa narrativa che avrebbe avuto bisogno dello sguardo di Lynch per diventare pienamente interessante. Così, il gioco di misteri si scioglie troppo presto sullo schermo, l’evoluzione si fa banale e prevedibile ed i richiami ai grandi film del passato travalicano l’estetica ed entrano di prepotenza anche nel racconto.
Shutter Island è un film che gira su se stesso senza arrivare al dunque, una pellicola che intavola una partita mentale con lo spettatore partendo alla grande nelle prime battute per poi farsi battere già a metà tempo, diventando didascalico e troppo debole. E’ anche un film che cela dietro alla sua facciata di thriller psicologico un discorso importante sulla colpa, sulla nostra “società degli orrori” e sulla violenza. Ma questi argomenti Scorsese li ha trattati sicuramente meglio in quasi tutti i film della sua carriera, con tanta poesia e maturità. E’ opportuno sottolinearlo, perché nonostante la non completa riuscita di Shutter Island, dobbiamo sempre riconoscere a Scorsese quel che è di Scorsese.
(Shutter Island) Regia: Martin Scorsese; soggetto: tratto dall’omonimo romanzo di Dennis Lehane; sceneggiatura: Laeta Kalogridis; fotografia: Robert Richardson; scenografia: Dante Ferretti; montaggio: Thelma Schoonmaker; musica: Robbie Robertson; costumi:Sandy Powell ; interpreti: Leonardo Di Caprio (Teddy Daniels), Mark Ruffalo (Chuck Aule), Ben Kingsley (Dr. Cawley), Michelle Williams (Dolores), Emily Mortimer’s (Rachel Solando), Patricia Clarkson (Rachel Solando), Max Von Sidow (Dr. Naehring); produzione: Phoenix Pictures; distribuzione: Paramount Pictures; origine: USA; durata: 138’.
