Silence

Il primo dato da registrare è la felicità, enorme, incontenibile, di ritrovare un autore gigantesco che da tempo aveva smarrito la chiave del proprio genio e si era avventurato in percorsi accidentati che non hanno giovato alla sua creatività e alla sua filmografia, tanto da indurlo, dopo le fallimentari imprese del pur coraggioso Shutter Island e del pasticciato e ragazzinesco Hugo Cabret, a tentare la strada dell’imitazione di sé, manierando stucchevolmente il proprio (giustamente) celebrato stile di un tempo per confezionare un prodotto di fruizione faticosa come The Wolf of Wall Street. Il quale gli ha tuttavia regalato quel successo al botteghino che gli ha permesso di coronare un sogno sbocciatogli in petto già nell’88, quando aveva ultimato la sua personalissima rivisitazione evangelica de L’ultima tentazione di Cristo, tratto dal romanzo di Kazantakis. Fu in quel periodo che a Martin Scorsese capitò fra le mani, tradotto dal giapponese, Chinmoku, il romanzo di Shusaku Endo ispirato ai tragici fatti avvenuti in Giappone quattro secoli addietro, quando ebbero inizio le persecuzioni contro i padri francescani e gesuiti arrivati fin laggiù dalla Spagna e dal Portogallo per diffondere il messaggio Cristiano nei villaggi del cupo e livido medioevo del Sol Levante. Protetti inizialmente dagli Shogun intenzionati ad arginare il potere dei monaci buddisti e interessati a mantenere buoni i rapporti con Spagna e Portogallo, i missionari in Giappone furono poi vittime di terribili persecuzioni orientate, in seguito ad una pesante crisi delle relazioni con gli stranieri e al sempre più rigido protezionismo commerciale e culturale del Paese, ad annullare la diffusione della Cristianità sul suolo nipponico, la cui eco provocò in Europa sgomento e scalpore: la Pinacoteca di Brera a Milano custodisce un dipinto di Tanzio da Varallo che illustra con affollata vividezza la tragica fine dei Martiri di Nagasaki: una tela gremita di frati crocefissi come Nostro Signore nei dintorni della città che nel ‘900 ospiterà l’amara vicenda di Madame Butterfly, per poi venire spazzata via dall’Atomica nel 1945. Il rituale di quella e di tutte le altre persecuzioni che andarono incrementandosi per l’arco di tutto il XVII secolo era sempre lo stesso: invitati a rinnegare la fede nel Dio dei Cristiani, coloro che si rifiutavano di calpestare simbolicamente con il piede un’immagine sacra adagiata in terra venivano crocefissi come Gesù e torturati per giorni finché non morivano dissanguati, o consumati dalla fame e dal dolore. Il romanzo di Shusaku Endo parte da qui per raccontare il viaggio di due giovani Padres Gesuiti portoghesi, Sebastian Rodrigues e Francisco Garupe, alla ricerca del proprio Padre spirituale Cristovao Ferreira, partito per il Giappone qualche anno avanti, e che dopo una misteriosa defezione ha fatto perdere ogni traccia di sé. Ma Silence (la parola inglese che traduce il titolo giapponese del romanzo) non è un film d’avventura. Non ha nulla dell’epicità e della spettacolarità dei film in costume degli anni ‘60 cui figurativamente e cromaticamente fa riferimento. E’ anzi il film più fortemente autoriale di Martin Scorsese, il più austero e potente della sua filmografia, che probabilmente scontenterà i fans delle scatenate saghe di Goodfellas e di Casino per buona parte recuperati con i nevrotici e idiosincratici eccessi di The Wolf of Wall Street; e forse deluderà anche chi non saprà riconoscere in tanta ieratica essenzialità certo rigore presente nelle solitudini metropolitane del Travis Bickle di Taxi Driver. Quello che fa di Silence un film sorprendentemente inedito, e forse anche “scomodo”, o almeno “difficile” per il pubblico delle attuali sale cinematografiche, è che mostra in un modo in cui al cinema, men che meno americano, non ha più fatto nessuno da almeno cinquanta o sessant’anni, la Fede. Tema spinosissimo e, pur se di strettissima attualità, ormai travisato nella società occidentale che confonde la religione con qualcosa di confortevole, un porto dove trovare rifugio, consolazione e comprensione adeguandosi volentieri ad una aproblematica unanimità di consensi. Abbandonati i manierati virtuosismi in cui era andata ad estinguersi la sua onnivora visionarietà, il cinema di Scorsese riacquista un passo cadenzato e marziale (si veda come nei primi minuti del film sono inquadrati i volti e le teste dei due giovani Padres a colloquio con il Rettore dell’Università di Macao, editati in ritmici salti a sorpresa di campi e controcampi e volumetrie alternate tra i pieni e i vuoti delle due metà dello schermo) ed è palpabile l’intenzione tutta nuova di riappropriarsi in dettaglio di quel contenitore misterioso della Fede che è IL CORPO dell’essere umano, e tornare a dipingerlo secondo i canoni della grande pittura dei secoli d’oro dell’arte, restituirgli posture e chiaroscuri che ne mettano in luce la statuaria drammaticità, la superficie vibrante di una pelle di spore, di peli e di carne, involucro di un’Anima, cioè di quell’universo insondabile di emotività e turbamenti che nella contemporanea e confusionaria giostra di figurine e simulacri contro cui va a sbattere il nostro immaginario di spettatori, irrompe sullo schermo come una palla incandescente che tutto invade e devasta. Una delle meraviglie, forse la più audace e matura di Silence è proprio questa: senza alcuna proditoria intenzione di convertire o fare proseliti, né tanto meno di spacciare questa Fede, che è la fede cattolica tanto dei frati protagonisti quanto dello stesso Scorsese, come l’unica valida e possibile, il film vince la scommessa di raccontarla come materia viva, una fiamma accesa che un ateo, o un non credente, può guardare senza lasciarsene coinvolgere intellettualmente, ma non può evitare di avvertirne il calore. Suonerà come un ossimoro, ma Silence – che è il silenzio di Dio, già a piene mani diffuso sugli schermi da Bergman o da Dreyer – è un urlo che mette in guardia il mondo in cui ci ritroviamo a vivere, un mondo che dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale è stato quasi legittimato a cancellare Dio, o comunque a ipotizzarne con sofferta e amara consapevolezza l’inesistenza, contro il pericolo di non capire coloro che, diversamente da chi non vuole o non riesce più a credere, si ritrovano in cuore la fiamma inestinguibile, la spada infrangibile, la colonna indistruttibile della Fede. Ma per Scorsese non esistono buoni e cattivi. I “nemici” dell’incrollabile fede di padre Rodrigues e dei suoi compagni, i nobili e severi guerrieri giapponesi, eseguendo gli ordini dell’Inquisitore e torturando fino allo sfinimento i cristiani che rifiutano di abiurare la fede Cristiana, non sono, per quanto spietati, i tipici “cattivi” dei film. Anche della loro indole di solerti e obbedienti militari Scorsese mostra il lato umano che li giustifica e umanamente ce li avvicina. Hanno buone e valide ragioni per difendersi da un Credo destabilizzante per il loro intero sistema culturale e identitario. Il mondo non è tutto uguale, e per quanto la Globalizzazione abbia abbattuto barriere e diversità rimestando in un calderone unico le pratiche quotidiane, il cibo, l’abbigliamento, la musica, lo sport, resteranno per sempre inestirpabili attitudini e comportamenti conformati ad un pensiero scaturito e sviluppato secondo paradigmi antitetici e non sovrapponibili. Forte e chiaro, terribile nella sua disarmante e ruvida schiettezza, è questo l’urlo più difficile da decodificare durante la visione di Silence. Cose che al cinema davvero in pochi hanno provato a indagare e sondare, e che ancora di meno hanno saputo raccontare con simile potenza e vigore di immagini praticamente assenti nel panorama contemporaneo, almeno del cinema che esce regolarmente in sala. Su 161 minuti è forse fisiologico che nella parte centrale vi siano alcune lentezze ed esitazioni narrative, ma è poca cosa rispetto al violento, a tratti insostenibile tsunami di sensazioni fisiche (ma attenzione: MAI “spettacolare”, nella sua essenzialità barbarica e terrestre) che squarcia lo schermo. Quella marea che annega i contadini “Kirishtani” (così i giapponesi chiamavano i Cristiani) crocefissi nella baia, nella totale assenza di commento musicale - come l’intero film, o quasi, a vantaggio di una concentrazione e di una tensione emotiva di impatto straordinario – quei corpi avvolti nel vimini e appesi a testa in giù con un taglietto dietro l’orecchio perché il sangue defluisca e coli via impedendo una morte rapida e prolungando l’agonia, sono gli ingombri solidi, le masse ruvide e grondanti della materia di cui sono fatti gli incubi.
Per questo suo grande, immenso film della tarda maturità (che sta a Toro Scatenato o Goodfellas come gli Ultimi Quartetti per archi di Beethoven stanno alla Quinta o alla Settima Sinfonia) Martin Scorsese ha messo insieme un cast tutto al maschile stregato, anzi irretito per intero da questa sua inedita asciutta monumentalità: Andrew Garfield trasmette ininterrottamente, dalla prima all’ultima inquadratura, tutti gli spasmi della stessa angoscia che fu di Cristo in croce quando morendo gridò a Dio Padre “Perché mi hai abbandonato?”; Adam Driver, che si avvia a diventare il più grande attore vivente, campeggia sullo schermo con le singolari proporzioni delle materiche fattezze del suo volto e del suo corpo, ed evoca figure antiche di santoni ed eremiti oggi introvabili; a Liam Neeson è affidato il personaggio più difficile, l’apostata Ferreira, cui è riservata la parte ideologicamente più sottile e complessa del film, insieme a una delle più veementi sequenze mai girate da Scorsese, che usa il primissimo piano dell’attore irlandese come fosse un gigantesco iceberg sul punto di urtare quel vasto e imponente transatlantico che è la Fede di Padre Rodrigues… Il cast nipponico è una piccola ma nutrita antologia di nomi e volti dello Star System del cinema e del teatro giapponese, compreso – selezionato e consapevole omaggio “cult” – Shinya Tsukamoto. Ma ruolo determinante per conferire a Silence e alle sue immagini quel certo qual profumo da film di David Lean, o comunque di un’epoca lontana ed estranea all’odierno lucore del digitale va riconosciuto a Rodrigo Prieto, che firma la fotografia, e a Dante Ferretti, che nella doppia veste di costumista e scenografo, compie il miracolo di superarsi e infiammare il film con dettagli e colori di bellezza abbagliante.
(Silence); Regia: Martin Scorsese; sceneggiatura: Jay Coks, Martin Scorsese, ; fotografia: Rodrigo Prieto; montaggio: Thelma Schoonmaker; musica: Kim Allen Kluge, Kathryn Kluge; interpreti: Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Shinya Tsukamoto, Yosuke Kubozuka, Issei Ogata; produzione: IM GLOBAL; distribuzione: 01 Distribution; origine: USA, 2016; durata: 161’
