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Simon Konianski

Pubblicato il 10 aprile 2010 da Alessandro Izzi
VOTO:


Simon Konianski

Non c’è miglior antisemita che l’ebreo stesso.
Ci piace partire da questa perla dell’umorismo yiddish per parlare di Simon Konianski di Micha Wald. Non perché il film in questione sia esempio di antisemitismo, ma perché il gusto per il paradosso verbale (ed esistenziale) che è alla base di questo aforisma ci aiuta a comprendere meglio i motivi della riuscita di una pellicola così strana e densa come quella appena uscita al cinema e presentata, con un certo successo, nella passata edizione della Festa del Cinema di Roma.
Nell’aforisma si ravvisa, infatti, prima di tutto, lo splendore graffiante di una cultura abituata ad esprimersi più nel mondo astratto e filosofico del Verbo che in quello immediato e sensibile dell’immagine.
Forse perché legata all’indissolubile comandamento di non rappresentare la divinità in forma di immagine, la cultura ebraica, infatti, si è sempre orientata sul versante della parola, della discussione dotta, della lunga parafrasi verbal/testuale. Non potendo raffigurare Dio, l’ebreo finisce, quindi, per parlarne indefinitamente, per discuterne, per farne oggetto di un discorso virtualmente infinito che, a guardarlo da fuori, può apparire, al profano, stranamente goffo ed ai limiti della comprensibilità. Un principio di retorica, quello di cui stiamo parlando, che, se applicato ad altri contesti che non siano la dotta riflessione teologica, diventa irrimediabilmente buffo. L’ebreo che ride di se stesso, non sta ridendo del suo essere membro del popolo eletto (sarebbe blasfemo), ma sta ridendo di una cultura retorica raffinatissima che si fa ridicola quando è svuotata di ogni contenuto e presentata nuda e cruda nella sua forma.
Tutto il cinema di cultura ebraica (da quello israeliano a quello di Woody Allen o Mel Brooks) è un cinema estremamente dialogato e assai poco visuale. Il suo valore lo si coglie non tanto nella sua capacità iconografica, ma nella qualità del gioco verbale. Allo stesso modo il racconto non è mai dato da un preciso andamento lineare con una calcolata successione di scene, ma dall’assemblaggio di sequenze autonome, tutte centrate sul gioco ludico delle parole o, al più dal contrasto netto tra l’invadente evidenza dell’immagine (elemento necessario quando si fa cinema) e le parole che su di essa scorrono, senza mai aderirvi del tutto.
Simon Konianski, piccola perla di umorismo yiddish, muove nel solco di una tradizione ben precisa: si avvale di un archetipo della cultura narrativa ebraica (il rapporto padre-figlio vissuto qui nell’arco di ben tre generazioni) e lo struttura su un gioco di messa in successione di scene autonome che comunicano tra loro quel tanto che basta per dare il senso di un percorso. La somma delle scene dà il racconto, ma ogni momento del film vale per sé, quasi desideroso di un’autonomia impossibile per quello che resta, in fondo, un road movie di formazione. Del resto è proprio il genere a costituire un motivo di paradosso dal momento che l’essere in strada, lontano da casa per pura scelta esistenziale (la conditio sine qua non del genere) urta con la storia di una cultura che è sempre stata in continuo esodo ed ha sempre anelato, quindi, non una partenza, ma un punto di arrivo. Sicché Simon Konianski rivela una sua dimensione di road movie atipico che fa coincidere il motivo del viaggio con un “ritorno” e, paradosso dei paradossi, identifica la “casa” cui tendere e il ricongiungimento dei padri coi figli (di tutte e tre le generazioni) nei campi di concentramento raggiunti proprio verso la fine del film.
Il campo di concentramento, emblema estremo della non rappresentabilità cinematografica e, quindi, elemento per sua intrinseca natura ebraico all’ennesima potenza, è nel film luogo identitario, epifania di una raggiunta ebraicità da parte di un personaggio che non si preoccupava, a inizio film, né smetterà poi anche se con spirito diverso, di parteggiare per gli arabi nel conflitto israelo-palestinese.
Il campo di concentramento passa quindi al vaglio di una non rappresentazione che potrà spiacere a chi si è troppo abituato ai film occidentali sulla Shoah. Non ne si vede quasi nulla a parte il filo spinato e uno scorcio di baracche e anche quando la macchina da presa vi entra dentro, ad essere spiato è prima di tutto il buio e solo in seconda istanza il legno. Qui ogni silenzio è rotto dalla voce dei fantasmi che intessono sull’orrore suggerito splendidi ghirigori di comicità. La visione dura appena un momento e sembra quasi piccolo accidente, ma si riempie di una gioia strana di chi si riconosce nel dolore. Uno strano piccolo miracolo per un film che dice più di quanto non sembri.


CAST & CREDITS

(Simon Konianski); Regia e sceneggiatura: Misha Wald; fotografia: Jean-Paul De Zaeytijd; montaggio: Susana Rossberg; interpreti: Jonathan Zaccaï, Popeck, Abraham Leber, Irène Herz, Nassim Ben Abdelmoumen, Marta Domingo, Ivan Fox; produzione: Versus Production; distribuzione: Fandango; origine: Belgio, 2009; durata: 100’


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