Sotto le bombe (Conferenza stampa)

Roma. Nella splendida cornice di Palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia, è stato presentato nell’ambito della rassegna "Printemps du cinéma français" il film Sotto le bombe in uscita nelle sale italiane il prossimo 30 Aprile. Distribuito da Fandango, il film arriva in Italia dopo aver toccato numerosi Festival nel mondo tra cui il Festival di Venezia e il Sundance Film Festival. A raccontare alla stampa la propria avventura è arrivato direttamente il regista franco-libanese Philippe Aractingi.
P. Aractingi : Sotto le bombe è effettivamente un film molto spontaneo. Avevo già avuto l’idea di fare in passato un film con due attori che si trovavano in mezzo al caos ma ero troppo giovane, avevo 25 anni allora e non avevo ancora affrontato un lungometraggio di finzione. Nel 2006 quando è esplosa quest’ultima guerra per me è stato veramente come ricevere una sberla, un vero dolore che ha risvegliato in me molti ricordi, molte memorie di guerre precedenti. Insieme a questi ha risvegliato anche l’idea che avevo avuto anni prima e che a questo punto ero in grado di realizzare. Nel frattempo infatti avevo girato molti documentari, avevo fatto il mio primo lungometraggio e avevo studiato anche la struttura del docu-dramma. Anche se però rimaneva la paura di dover lavorare letteralmente sotto le bombe. Ho scelto di fare un film di finzione e non un documentario intanto perché di documentari ne avevo già fatti tanti e mi ero accorto che il documentario parla molto alla ragione e forse poco alle emozioni. Avevo voglia di fare una cosa che parlasse di più alle emozioni. Il lavoro è iniziato il 12 luglio, io ho avuto l’idea di questo film il 14, ho chiamato gli attori il 15, il 20 abbiamo girato mentre c’era ancora la guerra. Ho diviso la struttura del film in due parti. La prima è la parte a caldo, quella spontanea che riprendeva la distruzione mentre ancora la polvere era sospesa nell’aria e nella quale gli attori hanno improvvisato su una sinossi che io avevo scritto. Dopo questa sono tornato in Francia per scrivere invece la seconda parte, quella di finzione che abbiamo realizzato appena rientrati in Libano. Non volevo fare un film di propaganda, volevo che fosse una cosa scritta con attenzione e avevo bisogno per questo di avere un minimo di distacco rispetto a quello che stava succedendo. L’idea era quella di seguire gli avvenimenti. Non cercare di condizionare ma di farci condizionare da loro, fare il film con la realtà che avevamo davanti e creare insieme a lei. Molte parti che si vedono all’interno dell’opera le abbiamo fatte mentre eravamo lì e con personaggi reali. Abbiamo lavorato senza trucco, senza scenografia, quasi sempre con la macchina a mano per aver qualcosa di crudo.
Il film ritrae il vissuto di una parte, quella dei libanesi. Non si corre il rischio di permettere allo spettatore ignorante di travisare determinate questioni?
Questo è un film che parla sia contro Israele che contro Hezbollah in modo molto chiaro. Non cerca di prendere la parte dell’uno o dell’altro ma sta dalla parte delle vittime che subiscono una guerra decisa da queste due entità. E’ molto difficile parlare di un conflitto così recente perché non abbiamo il distacco temporale che si può avere sulla seconda guerra mondiale. Quindi è chiaro che il mio punto di vista è quello che io ritengo giusto e legittimo per me, il punto di vista del libanese. (...) Non avendo il distacco e le informazioni necessarie, anche per noi risultava difficile a quel punto dare allo spettatore un’informazione che fosse giusta. Per questo motivo siamo rimasti su una constatazione di quello che stava succedendo. Non ci interessava sapere chi fosse il colpevole. C’è una parte in cui la protagonista dice che non le interessa nulla della guerra e di chi la combatte, lei vuole trovare solo suo figlio. E’ questo il suo punto di vista, il punto di vista del film. Ci poteva essere anche la rappresentazione di una situazione speculare, far vedere le vittime israeliane e dimostrare che anche dall’altra parte subiscono le guerre. Viene sempre data una spiegazione per le guerre ma quello che dobbiamo capire è che è soltanto odio che si propaga tra i popoli e che le cause all’origine di quest’odio non servono a nulla, se non ad alimentarle. Il film è andato al Festival di Gerusalemme, è andato al Sundance dove c’era una comunità ebraica importante che lo ha accolto molto bene. L’ho scritto insieme ad un amico ebreo, due dei quattro produttori sono ebrei e ho voluto realizzarlo con loro proprio perché non volevo fare un film di propaganda. Molte cose io l’avevo già capite da prima, a dieci anni tutti ci dicevano che il cattivo era il musulmano, il palestinese. Poi ho fatto dei documentari, li ho conosciuti, sono andato lì e ho capito che in realtà il cattivo ero io. Ho capito anche che in realtà era tutto relativo. Quando è scoppiata quest’ultima guerra, la prima cosa che ho fatto è stato chiamare questo mio amico ebreo dicendogli: “dobbiamo fare qualcosa insieme perché sto cominciando a detestarti per le bombe che i tuoi cugini stanno mandando in testa alla mia famiglia”.
Il film arriva in sala molto tardi. Perché nella Francia che lo ha prodotto l’uscita è prevista soltanto per il prossimo 14 maggio?
Sono d’accordo con lei. Questo film l’ho girato molto in fretta proprio perché volevo che esistesse molto in fretta. E’ stato fatto tutto in meno di un anno. Dopo siamo entrati nel solito sistema dei Festival, dei distributori che lo guardano e giudicano. Devo dire che Fandango è stato uno dei primi a prenderlo! Comunque non è troppo tardi per la distribuzione perché ancora adesso si sta parlando di invadere l’Iran, si parla di un’altra guerra tra Israele e Hezbollah e quando ne parlano i giornali, lo fanno sempre in modo molto freddo, come di una cosa puramente geopolitica. Ma la guerra purtroppo è una realtà ed è una realtà molto calda. E’ importante che ci sia quindi un film che mostri che la guerra è una cosa orribile, che la guerra è una follia comunque e sempre. Non è mai troppo tardi!
Non è facile raccontare la sofferenza come lei ha saputo fare servendosi del vero e della finzione. Un apprezzamento particolare per l’attenzione rivolta a quel sentimento della madre così ben recitato dall’attrice protagonista.
Vorrei dire che per Nada e Georges (i due attori protagonisti) questo non è stato un film, non è stato recitato ma è stato vissuto. Ci siamo buttati in questo caos ed eravamo lì in mezzo al paese distrutto, in mezzo a veri personaggi, a veri rifugiati e quando loro piangevano, gli attori piangevano solo perché in quel momento vivevano la stessa cosa. Questo è il sentimento che abita il film.
Per essere un film arabo c’è una bella scena di sesso! Un suo commento su questo e sugli eventuali problemi di distribuzione in Libano.
Ci sono due motivi per cui ho messo questa scena. Il primo chiaramente è un motivo drammaturgico perché volevo mostrare lui che, mentre fa l’amore con una donna, viene chiamato di notte dall’altra donna disperata e poi anche perché volevo far vedere la sensazione che si vive durante la guerra. La pulsione di morte che solitamente si prova in questi attimi molto spesso porta chi la vive a controbilanciare questa sensazione con una fortissima pulsione di vita. Sapendo che con il mondo arabo si potevano avere delle difficoltà avevo fatto due versioni del film, una con la scena di sesso e una senza. Considerando che il Libano non è tutto sommato un paese arabo integralista l’ho fatto vedere nella versione originale. Quando ho visto che tutti quanti mi parlavano soltanto di questa scena di sesso ho deciso allora di presentare la versione tagliata. Quando il film è arrivato in Svezia, l’ho fatto vedere e ho raccontato questa storia: “Sapete in Libano ho tolto la scena di sesso perché era problematica”. La loro risposta è stata: “Quale scena di sesso. Ma perché c’era una scena di sesso?”. E’ sempre questione di punti di vista. Il film comunque è uscito in Libano nel dicembre 2007 ed è tuttora nelle sale dopo essere stato al numero 2 degli incassi dei film usciti in quello stesso periodo.
Capisco che il film ha un punto di vista libanese e la protagonista è libanese. C’è una ragione precisa però per cui questa donna è particolarmente occidentalizzata?
Ci sono diverse ragioni per cui ho scelto questa donna. Intanto volevo andare contro i pregiudizi che ci sono non soltanto nei confronti delle donne arabe ma proprio nei confronti degli sciiti. Tutti pensano che vivano nel medioevo. Io mostro una sciita che è diversa da come l’immaginiamo. Il secondo motivo è perché lei diventa l’ambasciatrice di quelle persone nei confronti delle quali noi spesso non abbiamo molta empatia. Sono le donne del sud, le donne che portano l’Higiab. Lei ci conduce in questo mondo, arriva vestita in modo moderno e pian piano ci trascina all’interno di un mondo che ci sembra molto lontano da noi ma che in realtà non lo è.
Nella complessità della storia perché lei ha inserito anche il dramma personale del tassista con il fratello collaborazionista, aprendo quindi tutta una questione politica che precedentemente lei tendeva a sfumare?
Mentre facevamo il film noi eravamo circondati da giornalisti, produttori, registi di documentari che riprendevano la verità dell’istante. Avevano tutti un punto di vista su questa storia e tutti la raccontavano in modo abbastanza superficiale. Poi loro sono andati via e noi siamo rimasti. A quel punto, proprio per non fare come loro, ho deciso di far vedere un film sul Libano che andasse più in profondità. Una delle cose che volevo far capire era che la guerra del 2006 non è cominciata così! Il problema del Sud del Libano veniva da molto lontano nel tempo, non è così semplice cercare di capire le responsabilità degli uni e degli altri. Io volevo andare più in profondità e per questo ho insistito sul passato politico di questo personaggio ma senza volerlo spiegare. Semplicemente volevo far capire che non nasceva tutto lì, ma c’era qualcosa prima.
