soundscapes

Il Tibet racconta ancora oggi la sua storia con l’alfabeto più antico. Alan Watts l’ha tradotta per i nuovi paesaggi d’arte contemporanea e per i suoi suoni. Ed è così che comincia quel suono lontano di clowns&jugglers di un circo fracassone e della sua elaborazione - cobwebs&strange, a cui pure la solennità della musica di Leonard Cohen ha ceduto nel film I’m Your Man (con l’omonima traccia registrata da Nick Cave con uno streestyle da Mardi Gras Sound System) distribuito anche tramite il Sundance Channel poco prima che il connazionale Neil Young uscisse al Sundance Film Festival 2006 con Heart Of Gold. Suoni, in ogni caso, paesaggi musicali; ma con l’elettronica, escluso il cinema, il suono diventa più facilmente arte e non solo in lettura. Ritorna a essere arte, là dove l’aveva lasciato Liszt che tecnicamente del soundscape potrebbe essere considerato il fondatore in direzione di quella fusion tra musica da camera e house music, tra lo stilema compositivo tipico della classica più audace, libera e improvvisata in molti casi, e l’elettonica più estrema, con particolari attenzioni alle forme scritte senza mai dimenticare le monumentali fondamenta estetiiche di provenienza jazz/blues. Il termine soundscape è stato comunque coniato da Raymond Shafer, World Soundscape Project, e la qual cosa ci porta a ridosso delle letture di Watts e conseguenti, dove si cullano stimoli da global mind o global consciousness. La Oliveros poi, tra le prime in scia, oltre alle sue performaces, (sequel del genere happening, da Cherry Blossom) ne ha tratto una collocazione differente; e già nel 1961 con Sonic Meditations, due anni dopo il primo lavoro di Shafer accosta la situazione a un giro profondo di ascolti per l’anima (soundscape è il disegno del suono di un film, che detto tutto insieme è archetipico di nonluogo oltre l’ultima formula linguistica alchemica joyceana a priorità Marx Brothers).
