Speciale DVD - Il Signore degli anelli - Un’introduzione

Quei trenta minuti in più.
I tre libri che compongono il vasto affresco de Il Signore degli anelli non costituiscono che una parte minima (per non dire irrisoria) dell’enorme mitologia che Tolkien andava componendo sulla sua Terra di Mezzo. Lo scrittore ha lavorato di fino, nel corso di tutta la sua vita, per arrivare anche solo ad abbozzare le cronologie, gli eventi e le lingue di un mondo totalmente inventato che pure conserva con il nostro, con ciò che noi siamo abituati a chiamare realtà, un rapporto peculiare. Questa vasta narrazione, questo universo parallelo di immani proporzioni costituisce, quindi, appena lo sfondo su cui vanno ad innestarsi le vicende di Frodo e della Compagnia dell’anello. Eppure è sempre evidente, e lo scrittore ce lo ribadisce ad ogni passo, che anche la storia in sé compiuta della lotta per la conquista del potere dell’anello non è che la punta d’iceberg di una storia senza fine (e per questo anche senza inizio) di cui si possono raccontare solo singoli capitoli e di cui è possibile solo arrivare appena ad intuire la vastità e la portata epocale. È questo il senso di smarrimento dell’Uomo di fronte alla Storia, ma questo è anche il senso di sconfitta che deriva dal rendersi conto, alla fine, che proprio la Storia può essere resa in filigrana solo attraverso tante piccole storie che ad Essa indefinitamente rimandano. Il senso del racconto si moltiplica allora all’infinito e il narratore, borgessianamente, possiede e perde continuamente il bandolo di una matassa e il significato di un discorso di cui intuisce i dettagli proprio nel momento in cui perde di vista il disegno generale. Una storia può essere in sé conchiusa, può avere un suo inizio e una sua fine, ma tali elementi non sono immanenti al racconto, essi dipendono dal punto di vista del narratore. Per questo la narrazione de Il Signore degli anelli non si chiude, come sarebbe lecito aspettarsi, con la scena finale in cui Frodo getta l’anello nelle fiamme del monte Fato (questo accade ben prima della metà del terzo libro), ma prosegue oltre, rincorre mille rivoli di tante piccole storie sparse che potevano essere dimenticate. Allo stesso modo la storia prende avvio ben prima che Frodo entri in possesso dell’anello, ben prima che Bilbo lo trovi nella caverna di Gollum e ancora prima che Smeagol lo trovi sul greto di un torrente avviando quella catena delittuosa che lo avrebbe trasformato in Gollum. Come ogni storia Il Signore degli anelli non ha un inizio (chè non può averlo) e non ha una fine (se si eccettua il finale favolistico e simbolico della partenza di Frodo e Bilbo per i porti grigi: una non fine, appunto). E come ogni storia ogni personaggio, ogni creatura che si affaccia sulla scena si porta dietro tutto un novero di altre storie. Infinite. Con infinite variabili. Perché allora chiedere al film La compagnia dell’anello di avere un finale cinematografico (Morandini)? Perché chiedergli di essere concluso? Perché chiedergli assurdamente di rispettare dei canoni cinematografici (quelli del Kolossal) e poi, paradossalmente pretendere che non li rispetti in nome di una presunta originalità che dovrebbe fare la dignità dell’opera (Le Cahiers du Cinema)? L’aggiunta dei trenta minuti (che sono fondamentali non al racconto, ma ad altri racconti interni al racconto) certificano, all’interno del progetto jacksoniano proprio questo: l’idea che anche Il Signore degli anelli cinematografico (ma sarebbe il caso di parlare di una versione per immagini in movimento perché il cinema si rivela contenitore troppo povero per la grandiosità del progetto del regista neozelandese) vada inteso come un testo aperto, soggetto alle infinite variabili del testo orale, congelato, è vero, in una forma, ma sempre suscettibile a variazioni e migliorie. Per questo la versione estesa è più bella di quella cinematografica. Non perché più completa, ma perché più vicina a quell’idea del racconto infinito ed infinitamente prolungabile che era già di Tolkien. Finire l’episodio in una posizione di assoluto anticlimax non è soltanto segno di uno strano coraggio (Ghezzi), ma anche e soprattutto un gesto che travalica i confini della fruizione cinematografica oltre la portata stessa del narratore e oltre le capacità stesse del fruitore. Esso è vagabondaggio puro e semplice al di là delle forme costituite. L’aspirazione di Jackson è verso la divina lunghezza delle ultime sinfonie di Schubert che, come diceva Schumann, sembrano non voler mai giungere ad una fine per la semplice ottima ragione che una fine non esiste. Il film jacksoniano è, allora, una sorta di possente e virtualmente infinito profluvio di immagini. L’invito è a perdercisi dentro, mentre infinite varianti (meno è vero che nel romanzo) ci si spalancano davanti ad ogni passo.
[dicembre 2002]
