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Speciale Family - Dirty Sexy Money

Pubblicato il 15 aprile 2009 da Marco Di Cesare


Speciale Family - Dirty Sexy Money

We’re a happy family
We’re a happy family
We’re a happy family
Me mom and daddy
(The Ramones, dal disco Rocket To Russia, 1977)

In effetti sì, i Darling sono felici, prediletti come sono già fin dalla nascita - Nomen omen - i più ricchi di New York e dell’America intera, amati odiati e temuti. E sono felici perché sono tenuti insieme dall’affetto gli uni verso gli altri e verso la Famiglia, che unisce amore e amoralità, gente che vive nella menzogna dell’apparire, che sembra tuttavia come l’unica vi(t)a possibile da percorrere, pur prospettando di possedere qualcos’altro che batte sotto l’esteriorità.
«Me mom and daddy». Però quel ’Me’ è da ripetersi tante volte, almeno cinque, ossia il numero dei pargoli che dovrebbero avere il compito di continuare la dinastia. Perché i Darling sono una nidiata, sette persone sempre al centro dell’attenzione dei media. Il capofamiglia è Patrick ’Tripp’ III (Donald Sutherland), da decenni sposato all’amata Letitia (Jill Clayburgh), con la quale ha messo al mondo, nell’ordine, Patrick IV (William Baldwin), Brian, Karen e i gemelli Jeremy e Juliet, i piccoli di casa coi loro venticinque anni.
«Me mom and daddy»: tre soli sono i componenti della famiglia George, nucleo stabile, borghese e lavoratore, minuscola particella che verrà travolta e fagocitata dall’incontro con l’aristocratica entropia. Nick (Peter Krause, già Nate Fisher in Six Feet Under) è cresciuto coi Darling, mentre il padre Dutch curava gli interessi della famiglia, nelle vesti di avvocato di fiducia: solo che l’attaccamento al lavoro di quest’ultimo ha mangiato la vita del ragazzo, figlio di due divorziati che non si vedono da tempo immemore. Ora, diventato un uomo nel fiore di quegli anni che si colorano di maturità, avvocato come Dutch, ma idealista e con accanto la moglie Lisa e la piccola Kiki, dovrà suo malgrado prendere il posto del genitore, scomparso in un incidente d’aereo dalle cause poco chiare, dove un relitto è emerso dalle acque, senza però riportare a galla alcun cadavere. Anche qui una professione che si propaga di padre in figlio, una trasmigrazione di anima come già accaduto al Nate di Six Feet Under, serie che con Dirty Sexy Money ha in comune anche il nome di Craig Wright: lì sceneggiatore e in seguito produttore, qui creatore. Due serie che comunicano nella dialettica tra superficie e profondità, tra esterno e interno, astrazione e materialità.
Rocket To Russia, ma con biglietto di andata e ritorno: molti anni fa l’afroamericano Simon Elder (Blair Underwood) venne esiliato in Russia assieme ai genitori - su di una imbarcazione, però - accusati di attività antiamericane, forse su intervento del buon Tripp. Ora Simon è tornato in patria: ormai è un uomo ed è diventato un miliardario filantropo, con la speranza di poter investire nell’eco-economia, rispettato da tutti e odiato dai Darling. Ed è in cerca di vendetta, perché ’We were a happy family, me mom and daddy’.
Refrain che potrebbe essere il mantra pieno di rabbia anche di Nola Lyons (Lucy Liu), avvocato che irromperà nella serie dalla seconda stagione.

’Quattrini sporchi e sexy’, denaro che non compare mai nella sua materialità cash: se ne parla, la sua presenza è costante, è un fantasma sempre evocato, divenendo l’ontologia dell’essere umano, ma è talmente tanto, tendenzialmente infinito, da divenire quasi metafisico. Non appare mai, divenendo come il ’Dio è’ dei cattolici, ’anima mundi’ immanente fra le altre cose che scorrono sulla superficie del mondo. Non si sente il delicato ma pungente frusciare di banconote sonanti e allettanti: perché ai piani alti dell’upper-upper class, lassù, fra le nuvole attraversate dal grattacielo dove risiede la magione di una famiglia molto WASP, tutto diviene sfuggente, senza peso - come la finanza moderna - e l’unica materialità è rappresentata dagli oggetti e dalle persone che quei soldi possono comprare, in uno sfavillio brillante e lucente che è la vera ontologia dell’esistere, posto tutto in superficie. Il ’Denaro è’: di per sé invisibile, ma ben presente. O comunque nascosto al nostro sguardo, come accade in L’avvocato di famiglia, puntata 2.2, quando venti milioni di dollari in contanti vengono trasportati in svariate valigie, fatto che farà esclamare a Tripp «Peccato che a risolvere la situazione sia stato lo spettacolo indecente della nostra ricchezza». Spettacolo però fino a un certo punto visibile agli occhi e del quale bisogna fidarsi sulla parola, visto che la ricchezza può anche poggiarsi sul Nulla, come insegna la realtà ai tempi della recessione.
E l’intera serie brilla per questa assenza che è presenza: come se volesse riportare a galla un corpo inesistente, un fantasma. Ed è in effetti lodevole il fatto di come venga quasi sempre evitato il facile espediente del flashback che, escluso il pilot, entra in gioco solamente in due puntate della seconda stagione, ma solo per mostrarne quasi l’inutilità e l’implicita soggettività: perché nell’episodio 2.10, I fatti, assistiamo a una ironica rilettura de I soliti sospetti (opera di quel Bryan Singer che è anche produttore esecutivo di Dirty Sexy Money) quando i Darling sono fuori per il Giorno del Ringraziamento e la loro dimora è custodita dallo chauffeur e insostituibile tuttofare, il quale elargirà tante bugie a una giornalista in cerca di scandali su una delle famiglie più chiacchierate d’America. E, ancora, solo nell’ultima puntata, la 2.13 (Il cattivo, che purtroppo rimarrà l’ultima in modo definitivo, visto che l’ABC ha interrotto la serie a causa degli ascolti non soddisfacenti) si assiste a un flashback che dovrebbe almeno diradare un po’ della nebbia che avvolge la trama mistery: il problema, però, è che il racconto sul passato viene interrotto più volte dagli interventi di alcuni personaggi nel presente; alla fine la rivelazione, per quanto importante, non si rivelerà tuttavia fondamentale, mentre essenziali saranno le parole proferite da Simon Elder una volta tornato al presente.
Perché tutti i personaggi vivono nell’oggi, in una immagine che è meglio non interrompere, come se fossero imprigionati, pesci in un acquario, effetti di un passato oscuro che non riescono a dimenticare e che preme sulle loro vite, in un rapporto fortemente causale, costringendoli a non poter riformulare completamente le proprie vite, a non poter fuggire - tranne che nel caso di un personaggio - rinchiusi in quella scatola che si chiama Famiglia, Cultura, Passato, dove la corsa incontro al futuro procede lenta. Da ciò ne sovviene la preponderanza dell’interno sull’esterno, in un mondo chiuso che ripropone quello delle soap opera, compresa la loro patina di finzione. Tanto che le rare fughe verso il mondo ester(n)o suoneranno false, come in una qualunque soap che ha abituato l’occhio alla ristrettezza dello sguardo.

Si parlava di trama mistery, perché Dirty Sexy Money, in quanto parodia di tanti serial americani sui ricchi che sanno più o meno piangere, da Dinasty a Beautiful, sa ben mescolare vari registri: dalla commedia al dramma, fino agli intrighi di corte i quali, però, nonostante tutto procedono in secondo piano, perché sembrano più che altro un sotterfugio per dare profondità narrativa a una serie che, piuttosto, si interessa degli interni del cuore, della complessità che si trova sotto la superficie, ma che, nondimeno, con l’apparenza deve sempre fare i conti. Ossia quello che accade nel sempre straordinario Desperate Housewives.
E si sa come una fortuna incalcolabile possa dare alla testa. Così il bel cast di Dirty Sexy Money non fa altro che esibire una recitazione artificiosa, espediente che va di pari passo con la meraviglia ingenerata da quello spettacolo indecoroso che è la ricchezza smodata, pronta a correre dietro un montaggio veloce che non dà molta tregua. Tale artificiosità come un’epidermide ricopre le due facce opposte della fissità e del disordine più manifesto. Alla prima categoria appartengono i personaggi ’maturi’, quelli che mostrano di avere il destino fra le loro mani, o che almeno credono di averlo: dal burattinaio ’Tripp’, alla coppia composta da Nick e Lisa (Zoe McLellan), fino a Simon Elder, i quali sfoggiano una calma serafica che difficilmente infrangono. All’opposto i ’fanciulli’ si esprimono principalmente per il loro lasciarsi maggiormente trasportare dagli eventi e per una recitazione sopra le righe, che spesso sgrana gli occhi di fronte a tanta meraviglia, sguardo che riflette lo stupore come farebbe uno specchio che grazie a quello si illumina. Così Letitia è la tipica mater familias che accudisce e protegge i suoi cuccioli, una depressa che affoga gli ultimi anni nell’alcool con l’ironia e il sorriso, laddove Karen (Natalie Zea) colleziona mariti su mariti, lei fin da bimba innamorata di Nick. Mentre i gemelli Jeremy (Seth Gabel) e Juliet (Samaire Armstrong) rappresentano una evidente presa in giro della ricca gioventù modaiola che passa da un party all’altro: soprattutto lei rifà il verso a Paris Hilton, ma mostrando, in realtà, un aspetto da verginella dolce e sentimentale al di sotto della facciata che esibisce ai media. Mentre Jeremy passa da un letto all’altro, anche perché in cerca dell’amore e della realizzazione di sé. E poi Nola Lyons: una bambina che nasconde un segreto dietro la sua aria di intelligente e scaltra arrampicatrice.
Un po’ preso in mezzo tra i due poli si trova Patrick IV: primogenito, spinto dal padre alla carriera politica, si trova stretto tra la voglia di ribellarsi e quella di adeguarsi, lui innamorato della transgender Carmelita con la quale tradisce la moglie. Infine, anche se nelle odierne democrazie la scelta ultima è in ogni modo lasciata all’individuo, si dovrà pur convenire che ogni buona famiglia nobile ancora oggi dovrebbe avere tra le sue file un ecclesiastico, no? Così non si può non parlare dello splendido personaggio di Brian (Glenn Fitzgerald), pastore protestante senza vocazione, rabbioso, inquieto, adultero, corruttore e anche un po’ carogna, soprattutto nei confronti di Nick, che odia fin dall’infanzia. In proposito, è da applauso una sua battuta in particolare, rivolta proprio all’avvocato: «La tua superiorità morale è irritante».

Ma l’upper-upper class ha in ogni caso bisogno dell’onesta borghesia media e lavoratrice per portar avanti i suoi affari, per premiare la bravura e non (solo) la nobiltà di sangue, per corromperla con il suo fiato mefistofelico, per mostrarle la reale ambiguità e il mistero del mondo, per chiederle se pensa davvero che il Diavolo si travesta da diavolo, per rigenerarsi grazie a lei anche, quasi a voler simbolicamente evitare quei matrimoni tra consanguinei che hanno significato l’inizio della fine di un mondo, per concepire il rinnovamento di una tradizione, quell’apertura che, almeno nelle intenzioni, è parte integrante della democrazia americana, la quale non vuole apparire solamente come uno show con paillettes alla mercé dei mass-media. E perciò Dirty Sexy Money è una immagine che rappresenta bene l’America – o, meglio, come Lei vorrebbe apparire - uno specchio piano e non deformante che la mostra sospesa tra evoluzione e Ancien régime, ma comunque anche uno spot per un sistema che afferma di premiare le capacità individuali in un Paese che si mostra ormai secondo le sembianze di un corpo vuoto alla ricerca di un’anima. E che, per questo motivo, non è stato completamente capito dal pubblico, spaventato dalla sua stessa immagine riflessa nell’abisso e che ha preferito condannare a fine prematura un prodotto assai interessante, per non dover vivere la sua di fine.


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