X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Speciale Family - The Riches

Pubblicato il 22 aprile 2009 da Marco Di Cesare


Speciale Family - The Riches

Forget your lust for the rich man’s gold / All that you need is in your soul, / And you can do this if you try. / All that I want for you my son, / Is to be satisfied.

(Simple Man, Lynyrd Skynyrd 1973)

«Ho pensato a quanti sono centocinquanta milioni di dollari e ho sentito qualcosa muoversi nei miei pantaloni: niente te lo fa rizzare più che una cifra superiore al budget di uno stato africano di morti di fame. Ho ragione? Proprio come avevi detto, Doug... giusto?»
«Non l’ho mai detto».

(The Riches 2.4, Slums of Bayou Hills, 2008)

Uno stesso luogo, il Sud degli Stati Uniti, talmente vasto da poter contenere sia la poeticità di una grande canzone rock, che la prosa senza fronzoli di Hugh Panetta: perché in entrambi i casi si tratta di parole che rappresentano valori antichi, frasi che pizzicano nervi più o meno nascosti, ma che divengono comunque il palesarsi di grandi verità, una biforcazione al centro della quale i The Riches si svelano per il loro essere mutevoli, tanto che Doug non è Doug, anche se forse lui ormai pensa di esserlo diventato, una grande bugia raccontata soprattutto a sé stesso, ma nella quale è lui il primo a dover credere.
Perché The Riches è una splendida serie della FX - che, ora come ora, dopo due sole stagioni ha gettato via una perla accecante - creata dall’esordiente Dmitry Lipkin, russo trapiantato in Louisiana che afferma di avere imparato l’inglese guardando la televisione, compreso un telefilm come A Beverly Hills signori si diventa, il quale sembrerebbe avere alcuni punti di contatto con la sua creazione. Un’opera che più volte è stata definita la storia di come chiunque possa disporre di una seconda possibilità, ma che qui è piuttosto apparsa come una lucida dialettica aperta sullo scontro tra ideali e concretezza, segno tangibile e profondo di quella ferita che prima o poi lacererà le nostre esistenze (sempre che non lo abbia già fatto). In particolare sarà il tormento profondo di chi si trova prigioniero del Sogno Americano che gli striscia lungo la pelle, diabolico tentatore - con addosso stampata la $ del dollaro - che diviene qui ciò che è in realtà: immagine e rappresentazione, ovvero valori fondati sul Nulla esistenziale.

Valori molto borghesi, almeno quanto però il volerli negare ad ogni costo. Perché i Riches sono (stati) i Malloy, gruppo di nomadi irlandesi (ben diversi dagli zingari nell’accezione europea).
L’episodio pilota li coglie immediatamente nel loro mestiere preferito, ossia quello di gabbare il prossimo, riprendendoli con la videocamera a mano attraverso un movimento a precedere lungo un corridoio, come performer pronti a salire sul ring, persone che conducono una vita senza sosta, mentre ripassano di continuo la loro parte. Nel caso specifico il primattore, il pater familias Wayne (Eddie Izzard), sta per rubare l’identità di un uomo con l’intento di intrufolarsi tra un gruppo di ex-studenti diplomatisi nel 1981. È accompagnato dai tre figli, gli adolescenti Di Di (Shannon Marie Woodward) e Cael (Noel Fisher) e il piccolo Sam (Aidan Mitchell), bravi a ripulire gli astanti mentre il babbo, completamente calatosi nel personaggio, interromperà l’esibizione di una band per ricordare i bei tempi andati con i suoi compagni, le delusioni e i dolori, prospettando però la possibilità di avere un nuovo futuro davanti a sé e non più un avvenire dietro le spalle, storie di speranza, riscatto e trionfo, ricevendo in cambio applausi riconoscenti. Perché «Noi siamo l’America. Lo capite? Noi siamo il meglio e il peggio. I suoi disadattati e le sue reginette [...] La sua anima e le sue chiappe carnose!». Proprio quando la situazione comincerà a diventare calda, la famigliola riuscirà a fuggire con i soldi.
Velocemente, perché deve andare a riprendere la mamma Dahlia (Minnie Driver), al suo primo giorno di libertà vigilata dopo due anni trascorsi in carcere, imprigionata a causa di una truffa finita male, sulla quale il marito aveva espresso totale fiducia. Ma ora lei è più libera, malinconica e dipendente da metanfetamine. Tornati tutti insieme nell’accampamento del loro clan, fuggiranno quando Di Di rischierà di dover sposare un trentenne buono, che la ama da quando è bambina e che accusa anche qualche ritardo. A questo problema si aggiungeranno dei forti contrattempi con Dale (Todd Stashwick), figlio del patriarca dell’accampamento e cugino di Wayne, con il quale è in lotta per entrare nel cuore del capo, anziano e malato.
Solo che i Malloy, completamente al verde, porteranno con sé i risparmi della comunità, frutto di tante ruberie. Ma lungo il viaggio diretti verso il solito Messico, si imbatteranno in un’altra famiglia nomade che vorrebbe accompagnarli pensando di poter lucrare su un nuovo remunerativo colpo. Però, mentre cercheranno di divincolarsi da quell’abbraccio pestifero da parte del loro passato, verranno coinvolti in un incidente nel quale moriranno Doug e Cherien Rich, un avvocato e sua moglie, diretti in Louisiana. Sinceramente addolorati, i Malloy però faranno sparire le tracce dell’accaduto seppellendo l’automobile in una palude - come accadde all’aereo che trasportava i Lynyrd Skynyrd, precipitato mentre stava volando verso la Louisiana, portando con sé i cantori dei valori del Sud - e prenderanno le chiavi della loro nuova casa, che avevano comprato via internet, in un luogo nel quale non conoscevano nessuno. I Malloy, prima decisi a fermarsi solo per un giorno, ruberanno l’identità dei due e si reinventeranno attraverso una nuova vita nel circondario di Edenfalls, un quartiere residenziale abitato solo da ricconi di una certa età.
C’è chi pensa che vivere sotto un tetto ti porti via l’anima, e chi invece crede che si tratti solo di superstizioni. C’è che si adatta alla prospettiva di una vita diversa e chi non ne è entusiasta. Alcuni disprezzano quelli che chiamano ’borghesi’, altri saranno molto più tolleranti. Così Wayne diventerà Doug, sarà un avvocato senza capire nulla di giurisprudenza, non avrà sempre molti scrupoli quando lavorerà per la Panco, l’azienda edile di Hugh Panetta (Gregg Henry), una caricatura del self made man, speculatore e squalo indebitato fino al collo, repubblicano di ferro con una certa passioncina per le donne e le armi. E Wayne indosserà fisicamente gli abiti e le scarpe di Doug, all’inizio troppo grandi per lui. Ciò che gli interesserà sarà realizzare un futuro migliore: per sé e per la sua famiglia. Come farebbe qualsiasi padre amorevole: nomade o stanziale che sia.
Fatti su fatti si susseguono, lasciando che si rincorrano emozioni l’una dietro l’altra, tra scavi psicologici, sorrisi, tristezze, momenti toccanti e meraviglie assortite, grazie a una scrittura curata e attenta che si poggia su un bel cast, dove giganteggiano gli splendidi Minnie Driver ed Eddie Izzard.
Intanto il piccolo Sam compirà di continuo la sua seconda scelta: perché fin dall’inizio ha amato travestirsi da femmina, indossando vestiti, parrucca, fermagli, rossetto, raffigurazione dei cambiamenti degli adulti, mentre il padre ama ripetergli «La vita è un fiume, figliolo: devi andare dove ti porta». E, come spesso accade all’ultimogenito, egli sintetizza su di sé le dinamiche, più o meno contrastanti, che attraversano il nucleo famigliare, divenendo un osservatore (in)consapevole che disegna la storia sua e dei suoi congiunti sulla parete di una stanza della magione, come un graffito che è l’unica testimonianza di quanto accaduto in un passato forse già lontano, ma che di certo si vuol tenere nascosto.

The Riches rappresenta un pregnante attacco tragicomico e grottesco ad alzo zero contro i valori condivisi all’interno delle comunità più diverse, i nomadi come i borghesi, quasi a voler accomunare i due estremi della catena sociale, lontani nelle tradizioni, ma vicini nell’amore per il denaro. È una black comedy contro il potere della Cultura sull’individuo e il dominio del Sistema rispetto alle parti che lo compongono, alle quali non rimane che fuggire via. Ma fuggire verso dove? Verso un’altra cultura repressiva? Oppure è meglio tentare di scalarla, la piramide sociale, senza porsi troppi problemi di etica, per raggiungere la vetta oltre la quale le nuvolette del Sogno americano fanno bella mostra di sé? Nuvole da stringere e rubare come qualsiasi altra refurtiva, per appropriarsi di ciò che altrimenti sarebbe un tabù per chi si trova in condizioni disagiate. Anche perché la fuga al seguito di un ideale è un concetto tipico dei borghesi insoddisfatti: rideranno sconsolati, i nomadi, come se avessero con sé un imbecille, quando un ospite al loro seguito rivelerà di non aver portato nulla con sé, così, tanto per vivere Into the Wild.
Perché qui è tutto molto concreto, diversamente dal contemporaneo Dirty Sexy Money, poiché il denaro è ben visibile, lo si può toccare, i bigliettoni frusciano ed emanano un profumo fetido ed attraente, visto che la condizione di parvenu è diversa da quella di chi ha sempre alloggiato ai piani alti. E, ancora, più che le stranezze di una famiglia - in fondo sono nomadi, non borghesi nel senso stretto del termine – si sottolineano le anomalie del mondo che li circonda, dove regnano corruzione, condizionamenti sociali, bugie («Siamo tutti fasulli, in un modo o nell’altro»), una società dove i volti sono delle maschere scolpite dal passato, dalla tradizione, dalla cultura. Tanto che i Riches hanno spesso più morale di chi incontrano sulla loro strada.
Si notano delle differenze anche nei confronti di Desperate Housewives, in particolare per quel senso di estraneità e di solitudine che circonda i Malloy, unici veri protagonisti, a differenza dell’affollata Wisteria Lane, laddove Edenfalls appare piuttosto come un luogo popolato di fantasmi, regno del silenzio. Ed è sintomatico come la figura più vicina alla famiglia sarà Nina (Margo Martindale), una ultracinquantenne che fuma erba per dimenticare il suo sconforto e che può ben considerarsi come il solo personaggio, tra quelli maggiori, che si possa valutare completamente positivo. Altra evidente differenza è un utilizzo più presente della videocamera a mano - con le inquadrature alquanto stabili, però - oltre a una colonna sonora che assai poco utilizza il registro ironico, insieme a un maggiore tocco di realismo che guarda più al presente che allo scalfire la falsa patina del passato che ricopre il dorato mondo dei ricchi sobborghi americani.
Essere o non essere: dall’Amleto (IV, 5) proviene la dicitura «We know what we are, but not what we may be» che fa bella mostra di sé scolpita nell’ingresso dell’esclusivissimo liceo che dovrebbe accogliere i nuovi ricchi (episodio 1.2, Operation Education). Ossia un «Sappiamo chi siamo, ma non chi potremmo essere» (o, se si preferisce, «Sappiamo ciò che siamo, non ciò che saremo», secondo la traduzione di Nemi D’Agostino nell’edizione Garzanti ) pronunciato quasi con fervore da Wayne , una frase di Ofelia cui Dahlia con sufficienza risponderà: «Non so che significa, ma me lo scrivo». Profonda diversità di vedute? Forse. Però, dopo molte puntate (precisamente la 2.5, Trust Never Sleeps), Wayne, quando il piccolo di casa gli chiederà i motivi di certi cambiamenti di giudizio su una persona, risponderà che «La vita è complicata, Sammie». «Hai detto che la vita è un fiume». «Certo, anche quello».


Enregistrer au format PDF