Speciale Il Grande Gatsby - I was just making movies: Francis Scott Fitzgerald e il cinema
Superate le polemiche sullo snaturamento di uno dei capisaldi della letteratura del Novecento, tra classicisti indignati e modernisti ammirati, alla versione luhrmanniana del Grande Gatsby va almeno riconosciuto il merito di porre l’accento sulle intrinseche qualità cinematografiche della scrittura di Francis Scott Fitzgerald, figura ammantata – come il suo celebre protagonista – di un fascino nato dalla combinazione tra genio e sregolatezza, talento cristallino e vocazione all’autodistruzione, alimentata dalla burrascosa relazione con la moglie Zelda, romanzata nel tormentato Tenera è la notte.
Già in questo meraviglioso e sfortunato testo, l’attrazione dello scrittore per il cinema fa capolino attraverso la figura di Rosemary Hoyt, giovane e promettente attrice di Hollywood che incontrerà in Costa Azzurra un gruppo di ricchi americani, rimanendo fatalmente attratta da Dick Diver: l’apparizione di Rosemary su una spiaggia di Cap d’Antibes, del suo corpo di diciottenne “ancora coperta di rugiada” da cui prende le mosse il romanzo, è da subito indicativa della scrittura per immagini di Fitzgerald. Una scrittura che si concede, come una macchina da presa, lunghe pause contemplative, descrivendo in un movimento panoramico luoghi e volti, per poi stringere sui personaggi fino a rivelarne la più profonda intimità.
Eppure, come spesso accade per un paradossale cortocircuito linguistico, proprio i testi letterari più cinematografici risultano difficili da tradurre in immagini, tradendone le premesse e il potenziale: e quello della trasposizione delle opere di Fitzgerald è un doppio tradimento perpetrato dal cinema allo scrittore, dopo le delusioni professionali arrecategli in vita, raccontate tanto in chiave drammatica in The Last Tycoon e con tono più leggero nei diciassette racconti della raccolta Pat Hobby, disavventure di uno sceneggiatore ad Hollywood.
L’adattamento di Jack Clayton del Grande Gatsby, finora la versione più celebre se non altro per la produzione di un altro Francis (Coppola) e il cast ad alto tasso divistico composto da un Robert Redford al massimo del suo splendore e dalla lanciatissima Mia Farrow nei panni della leggiadra e detestabile Daisy Buchanan, fallisce per eccessivo rispetto: tentando di preservare le descrizioni dei personaggi e gli snodi narrativi finisce per diventare una pallida imitazione della pagina scritta, un’illustrazione filologicamente rimarchevole per ricostruzione d’epoca ma stilisticamente anonima, laddove la grandezza di Fitzgerald stava nell’estrema modernità della scrittura, minimalista ma ritmata come le trascinanti serate danzanti a East Egg.
Come i soggetti presentati agli Studios e puntualmente rimaneggiati, modificati senza alcun rispetto dell’autorevolezza della firma – da Red Headed Woman del 1931 (poi riscritto da Anita Loos e diretto da Conway con protagonista Jean Harlow), Un americano a Oxford del 1938 fino a Three Comrades, tratto da Eric Maria Remarque, che viene a tutt’oggi considerato il suo miglior lavoro per il cinema, sebbene Joseph Mankiewicz, ancora soltanto produttore, non si facesse scrupolo di maneggiare e riscrivere il trattamento a suo piacimento… - gli adattamenti delle opere di Fitzgerald vengono presi come canovaccio su cui imbastire discorsi privati o trattati come oggetti museali, lasciando scomparire in entrambi i casi l’autore.
Il Gatsby di Luhrmann recupera invece la grondante disperazione del protagonista, riportandone alla luce la natura autobiografica che Fitzgerald gli aveva donato. Trattando la sua stessa, vorticosa, esistenza come (s)oggetto artistico, lo scrittore si trasfonde nei propri personaggi, titanici, geniali, affermati eppure inesorabilmente fragili, ‘dannati’, destinati a perire in un mondo sul punto di cambiare, sconfitti dal peso e dalla grandezza dei loro sogni.
Gatsby è in questo senso parente stretto del Monroe Stahr protagonista dell’ultimo, incompiuto e postumo romanzo, The Last Tycoon, portato poi sullo schermo da Elia Kazan, su sceneggiatura di Harold Pinter.
La celebre scena del nichelino, in cui il talentuoso e giovane produttore spiega allo scrittore Boxley la quintessenza della narrazione cinematografica, rende conto della complessa relazione di Fitzgerald con Hollywood: dentro e fuori il sistema degli Studios, è al tempo stesso Monroe Stahr, in grado di intuire e padroneggiare nella propria scrittura la qualità visiva del racconto cinematografico, e il romanziere Boxley, costretto a ‘compromettere’ la sua arte con quella spuria del cinematografico per mere questioni economiche.
Figure egualmente maestose, i cui destini finiscono per convergere in modo speculare: entrambi fagocitati da un Sistema implacabile, dopo un’ubriacatura che ne sancisce l’inadeguatezza rispetto a un mondo dominato da logiche meramente economiche.
In uno dei finali più belli di sempre, Pinter e Kazan creano un’uscita di scena tanto silenziosa quanto implacabile per Monroe Stahr che, entrando in un oscuro teatro di posa dopo l’implicita destituzione da parte dei grandi capi, viene inghiottito dal buio dello schermo. Lo stesso che sembra aver accolto Fitzgerald dopo i bagliori della Riviera francese, dopo aver consegnato l’eternità al decennio più luminoso del secolo.
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