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Spettacoli dell’anno per la nostra redazione di Close-up

Pubblicato il 15 agosto 2018 da Monia Manzo


Spettacoli dell'anno per la nostra redazione di Close-up

Spettacoli dell’anno per la nostra redazione di
Close-up
Anche quest’anno la nostra redazione si impegna nel voler stimare e mettere in risalto alcuni spettacoli di diversa tipologia produttiva, anagrafica relativa ad attori, registi e drammaturghi

La sorpresa dell’anno a nostro avviso è stato “Reparto Amleto” una produzione dello storico Teatro di Roma che però premia i giovani e il nuovo che avanza nello scenario teatrale italiano. Reparto Amleto, già vincitore del Premio Miglior Spettacolo della rassegna “Dominio Pubblico - La città agli under 25”, ha impreziosito il cartellone della stagione scorsa del Teatro di Roma, consolidando e sostenendo la fucina di nuove creatività della scena romana- è andato in scena sia al Teatro India che al Teatro Biblioteca Quarticciolo, riscuotendo un grande successo di pubblico.
Lo spettacolo è stato scritto e diretto da Lorenzo Collalti, un giovanissimo drammaturgo, che a nostro avviso avrà un futuro piuttosto promettente grazie a una vena comica che si confonde e si trasforma in dramma per poi tornare al paradosso comico, grazie a un utilizzo molto azzeccato del testo più celebre del Bardo.
Il classico shakespeariano infatti è intelligentemente saccheggiato e poi attualizzato per diventare un ingranaggio teatrale: il giova­ne regista Lorenzo Collalti traspone la ce­lebre vicenda di Amleto ai giorni nostri: il luogo prescelto non poteva che essere un ospedale, visto che “il Principe di Danimarca” si è recato li in preda ad un attacco isterico vaneggiando e sostenendo di aver visto il fantasma del padre.
Il testo è un travolgente insieme di dialoghi, botte e risposte esilaranti e coinvolgenti, che creano un ritmo incessante portando il tutto a una vivacità incredibile, attraversi citazioni filosofi­che e battute mai banali, che trascineranno il pubblico in un vortice di risate e riflessioni.
Portano in scena questo testo sfacciato, originale, consapevole dell’appeal che può avere sugli spettatori che amano Shakespeare e al contempo accettano di poterlo vedere utilizzato in modo moderno e fuori dai soliti schemi intellettualistici che ormai annoiano.
Uno spettacolo veramente innovativo, moderno che gioca la sua riuscita grazie al testo acuto, ironico, surreale – portato sulla scena dagli attori Luca Carbone (Amleto), Flavio Francucci (portantino), Cosimo Frascella (portantino) e Lorenzo Parrotto (dottore), tutti giovani e molto validi, che interpretano le nevrosi del Principe di Danimarca, non più come la classica ricerca di una risposta al dubbio più emblematico della drammaturgia mondiale, bensì simbolo della crisi identitaria.
Ci troviamo di fronte a un testo “sacro” reso profano grazie a una vera chiave comica, con storie seppur solipsistiche ma vicine e moderne, in grado di restituirci la solitudine finale di un Amleto cosciente di essere finzione, condannato al silenzio e all’inazione.

La Locandiera
Altro spettacolo degno di nota è “La Locandiera” di Carlo Goldoni con la regia di Stefano Sabelli: la vicenda, infatti, originariamente ambientata a Firenze a fine ’700, viene "traghettata" nel Delta del Po, in un’atmosfera acquitrinosa anni ’50, ispirata ad alcuni racconti letterari di Gianni Celati e Danilo Montaldi, che vuole soprattutto essere un omaggio a capolavori del nostro Cinema neorealista, come Riso Amaro di De Sancits e Ossessione di Visconti. 
Nei panni di Mirandolina vediamo Silvia Gallerano, da anni straordinaria interprete de La Merda, un vero successo del nuovo Teatro italiano nel Mondo, che in questa nuova produzione interpreta una donna combattuta tra tradizione e femminilità emancipata. Altro protagonista della produzione molisana è Claudio Botosso, fra i volti più noti del Cinema italiano d’autore – diretto da registi del calibro di Avati, Fellini, Bellocchio, Bozzetto, Luchetti, Risi, Perlini, Schroeter, Micol (Seconda Primavera di Francesco Calogero, di cui è protagonista, è sugli schermi in questa stagione) – dà vita, con la sua recitazione intensa e asciutta al Cavaliere di Ripafratta, vero antagonista della protagonista goldoniana. L’aspetto più esilarante dell’acquitrinosa e surreale ambientazione ideata da Stefano Sabelli, arricchita dalle avvolgenti scene curate da Lara Carissimi e Michelangelo Tomaro sono: conti, marchesi e cavalieri, dei perfetti spiantati melomani, gagà misantropi, giocatori incalliti e misogini di fiume; balordi, che si arricchiscono o perdono tutto con poco, millantando e spacciando il poco che hanno, come il tesoro segreto e ritrovato nello scrigno riesumato di un pirata dei Balcani, che ha risalito dal mare i rivoli paludosi.
Centro della scena e microcosmo del mondo goldoniano è la scena girevole, consistente in una locanda-palafitta, immersa tra giunchiglie, e rigogliose piante...
La bellezza immaginifica di questa preziosa scena è data dalla metamorfosi della stessa che assume le sembianze ora di una nave corsara che aspetta stancamente il vento in poppa, ora di una casa di frontiera sospesa sull’acqua, con dietro, forse, il precipizio.
In questa ambientazione fluviale che funge da motore per una potente fantasia visionaria, spesso la notte la fa da padrona e le lucciole assumono l’aspetto di lanterne che fungono da caleidoscopio delle azioni e intenzioni degli avventori... proiettando emozioni e colpi di scena in un continuo e ininterrotto racconto teatrale. La musica è molto diversificata e spazia dalla radio d’epoca che manda in onda canzoni del Trio Lescano, ad attori che intonano arie operistiche ed "evergreen", generando un clima da varietà, sensuale ed ibrido, fra gli interpreti, che si dipana a ritmo di swing, lisci accorati o melodie rievocative e che il suono "live" di una fisarmonica diatonica rende ancor più struggente. Mirandolina ci appare in una nuova visione molto contemporanea, ovvero quella di una donna nuova che, distanziandosi, ma non troppo da una nobiltà in fase di decadenza, si emancipa con le sue sole forze e armi ed immaginare per sé un futuro nell’ambito di una nuova borghesia imprenditoriale femminile, prendendo da sola in mano le redini di un’azienda: agli occhi registici di un Sabelli visionario, Silvia Gallerano sembra essere e lo è, perfetta sia per il suo talento che per la sua straordinaria modernità recitativa, al modello di fascino femminile e capacità di autonomia concepito dallo stesso Goldoni per il suo più bel ritratto di donna.
Nel finale tutto torna, come la circolarità in cui è stata progettata la scena, come il gioco dei corsi e ricorsi di un girotondo o un carillon in cui è immerso il testo: esaurito il giro di giostra, tutti aspettano che ripassi la chiatta per il cambio e ricambio di habitué ed avventurieri; tutti sono pronti ad accendere le luci di un nuovo varietà… Il bellissimo cast prende forza dal vivo talento dei migliori giovani attori molisani, cresciuti negli anni nella Compagnia del Loto. Molti di loro, con determinazione, si sono già distinti e fatti apprezzare in tante importanti produzioni, fra Cinema e Teatro: Giorgio Careccia, un Conte di Albafiorita mix tra gagà e camorrista; Andrea Ortis, Marchese di Forlimpopoli, il classico veneto spiantato ma con passioni musicali da melomane incallito; Chiara Cavaliere ed Eva Sabelli nei rispettivi panni di Ortensia e Dejanira, che ricalcano, canterine e danzanti, artiste d’Avanspettacolo un po’ sfiorite e demodé; Diego Florio un ruspante e tenace Fabrizio; Giulio Maroncelli un raffinato Servo di dubbia sessualità.  Piero Ricci, considerato il più grande suonatore di zampogna al mondo, qui in veste di fisarmonicista, completa con la sua veggente e musicale presenza questa produzione, dove convivono passator cortesi e piccoli bracconieri dediti a facili contrabbandi, attratti dal liscio intonato, senza tempo e ritmo, e da prostitute in cerca di clienti di frontiera.

Re Lear
Giorgio Barberio Corsetti incontra William Shakespeare nella tragedia del potere, tra vanità, adulazioni, perfidie, crudeltà, portando sulla scena temi di grande attualità in una combinazione inedita di linguaggi e visioni, con protagonista Ennio Fantastichini. La produzione dell’acclamato Re Lear, è opera del Teatro di Roma in sinergia con il Biondo di Palermo, con la regia di un Corsetti ormai considerato come uno dei più importanti innovatori del teatro contemporaneo, si concentra nello studio della scrittura del bardo, tale da essere stato in grado di riportare sulla scena un linguaggio attualissimo e moderno, un mezzo potente attraverso il qual ha costruito un ponte tra presente e futuro in un’innovativa e coinvolgente visione shakespeariana.
Seguendo il suo celeberrimo percorso di sperimentazione, che si avvale spesso dell’impiego di nuove tecnologie e della drammaturgia itinerante, Corsetti compone una sinfonia infernale che ha principio nella prova d’amore da un Re alle sue tre figlie e culmina, in un crescendo di caos, nella distruzione di un regno in cui i pochi superstiti sono chiamati a confrontarsi con il timido tentativo di ricostruire un futuro possibile.
Emergono nella performance shakespeariana un gruppo di attori perfetti nei loro ruoli, esempi di studio e talento rinnovato nonostante ormai siamo tutti dei veterani dei palcoscenici italiani.
Shakespeare non è “maltrattato” e manipolato per velleità registi che e nonostante l’attualizzazione del linguaggio, ne esce rafforzato nel confermare L’universalità delle tematiche e della drammaturgia che supera qualsiasi limite di tempo e spazio.
Il potere, L’alienazione, la riconciliazione e l’amore ci ricordano da dove provengono tutti i drammi più importanti della storia e dell’uomo. Come cita Harold Bloom nel titolo del suo più importante libro di critica shakespeariana: “Shakespeare o l’invenzione dell’umano”.

Persone naturali e strafottenti
Quattro solitudini, un appartamento e una notte di Capodanno a Napoli. Donna Violante, la padrona, ex serva in un bordello, discute e litiga con Mariacallàs, un travestito, in bilico fra rassegnazione, ironia, squallore e cattiveria. E ancora, Fred e Byron che sono alla ricerca dell’ebbrezza di una notte: l’uno, uno studente omosessuale alla ricerca di una vita libera dalle paure, l’altro, uno scrittore nero che vorrebbe distruggere il mondo per vendicare le umiliazioni subite. Quattro persone naturali e strafottenti, che, per un gioco del destino, divideranno la loro solitudine con quella degli altri, mentre fuori la città saluta il nuovo anno, fra accese discussioni, recriminazioni, desideri repressi, liti e violenze sessuali.
C’è, in questo testo del 1973 di Patroni Griffi, un sottobosco di attualità così tangibile e una poetica di fondo così lucida e disincantata, da farne a tutti gli effetti un testo ancora fortemente contemporaneo, e perciò di teatro necessario. Emarginazione, violenza, distanze socio-culturali, violenza sessuale e psicologica, la ricerca continua di un altro che non esiste: la straordinaria drammaturgia di Patroni Griffi è cruda e ironica, scandalosa e poetica, verbosa e visionaria. Ne viene fuori una tragicommedia dal sapore post-eduardiano e pre-ruccelliano, col respiro di un periodare socio – poetico, che fra cinismi, grettezze e turpiloqui ci restituisce uno squarcio di vita di una generazione senza futuro, un affresco animato da personaggi borderline che appaiono come noi vogliamo vederli: cinici, superficiali, amorali. In realtà si tratta di creature inquiete, sole che soffrono inconsapevolmente la loro condizione nella perenne ricerca di una possibile felicità. E la cercano dando libero sfogo alle pulsioni sessuali e alla loro mercificazione. Da questo sudore di corpi costretti coattivamente alla ricerca della propria felicità o del proprio illusorio, riscatto, entro le mura di uno spazio vitale / non vitale, che ogni pagina del testo sprigiona chiaramente, l’intuizione di farne uno spettacolo concreto, dal gusto e sapore quasi cinematografico, che si serva della realtà per declinarla in astrazione, in un’esperienza di teatro diretto, e non filtrato dalla convenzionalità rappresentativa, con il fine ultimo di mettersi accanto all’autore, e non davanti, in un rapporto di dialettica e relazione. Per tradurre, declinandola nel contemporaneo, una drammaturgia così sofisticata e imponente, e troppo spesso sottovalutata.

Incognito
Per concludere segnaliamo ancora Incognito, diretto e tradotto dal regista Andrea Trovato, il quale ci regala un’opera contemporanea che prima d’ora nessuno aveva mai avuto portato in scena e ne comprendiamo il motivo: profondità dei concetti, evocazioni sul reale significato di memoria intesa come condizionamento delle nostre vite e anime, confronto tra scienza e umanità.
Tutto questo lo troviamo in “Incognito” dell’inglese Nick Payne, forse un nuovo Harold Pinter, un anglosassone che per antonomasia si occupa di tematiche molto meno frequentate dai nostri drammaturghi, troppo influenzati da concetti intimistici piuttosto che universali.
Il tutto è reso possibile attraverso una drammaturgia in cui si intrecciano ben 24 personaggi: le storie principali sono quella di Henry Molaison, a cui nel 1953 fu rimossa una parte del cervello per eliminare le crisi epilettiche a cui spesso era soggetto, ma che gli causò la perdita della memoria a lungo termine, con l’unica eccezione del ricordo d’amore nei confronti della moglie Margaret, e quella di Thomas Harvey, il patologo che eseguì l’autopsia sul corpo di Einstein e pensò bene di asportare il cervello per sezionarlo ed effettuare degli studi che secondo lui avrebbero portato a straordinarie scoperte.
Intorno a queste due storie principali ne ruotano diverse altre: quella di Martha, una neuropsicologa clinica, separata e madre, che si innamora di Patricia, quella di un uomo in cura da Martha che racconta sempre la stessa storia come un disco rotto, quella di un altro uomo che sospesi i medicinali per la depressione aveva ucciso la moglie dimenticando poi completamente l’azione compiuta, e molte altre vicende che rendono evidente il ruolo della mente e dei numerosi effetti che il cervello possa avere nel determinare le nostre vite senza poterle troppo prevedere.
Così il controllo della memoria e dei suoi effetti si trasforma in una ricerca spasmodica di verità intellettuale che gli straordinari attori: Graziano Piazza, Giulio Forges Davanzati, Désiré Giorgetti e Anna Cianca rendono possibile grazie a un importante lavoro di continua trasformazione mimica e interiore dei personaggi, che camminano e si trasformano attraverso spirali simboliche tra uno spazio e l’altro del palcoscenico, rendendo questo testo degno dello stesso sold-out di quello inglese, già protagonista di numerosi riconoscimenti. Questo tipo di ricerca regista e drammaturgia, nonché psichica danno uno sprone incredibile al pubblico nel frequentare teatri sempre più assuefatti a testi triti e ritriti, in cui il coraggio non è di certo il perno centrale della scelta artistica.
Questo spettacolo oltre ad avere dimostrato una grande opera di innovazione e una ventata di freschezza “cerebrale”, induce lo spettatore ad una riflessione oltre che intellettuale, riferendosi al ruolo della memoria come elemento di condizionamento negativo nei nostri sentimenti, senza poter essere al di sopra degli eventi della vita, anche di contro a come possa deleterio poterla perdere, perdendo così la propria persona fatta di innumerevoli piccoli ricordi, che seppur personali e intimi, rappresentano l’esistenza stessa e il motivo per cui forse viviamo.


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