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Surf’s up - I re delle onde

Pubblicato il 7 ottobre 2007 da Alessandro Izzi


Surf's up - I re delle onde

Partiamo da una considerazione che può apparire tanto ovvia quanto scontata, ma dalla quale non possiamo prescindere per valutare la riuscita artistica di un film come Surf’s up: il doppiaggio italiano ne massacra non poco il senso ultimo.
Questa considerazione che è tristemente valida per la maggior parte dei film di animazione (ricordiamo il caso del notevole Kiki di Miyazaki dove il doppiaggio italiano arriva al punto estremo di inventarsi con la voce, un personaggio, quello del gatto, che nell’originale quasi non c’è) vale forse ancor di più nel caso del bel cartone di cui stiamo parlando, ma non tanto perché arriva a fraintenderne il significato letterale, ma perché finisce per ridurne la portata utopica cancellando tutte le tracce del modo in cui la messa in voce dei personaggi è stata davvero parte integrante del loro processo di ideazione.
Il doppiaggio italiano, da questo punto di vista, pur adeguandosi significativamente alle scelte e agli equilibri sonori presenti nell’originale, ha, di fatto, ridisegnato interamente le atmosfere del cartone così come era stato concepito dai suoi autori. E lo ha snaturato non soltanto perché ha ridotto il gioco di riferimenti al contingente, che è tipico dei toons americani, in una serie di battutine tutte legate ad un’italietta simpatica e un po’ cialtrona (su questa linea la Shiverpool da cui viene il protagonista perde la sua aura di culla del ribellismo inglese per diventare una più provinciale Ghiacciano Terme e il pinguino cialtrone finisce per parlare con uno spiccato accento da romanaccio), ma soprattutto perché riduce, in proiezione, le dimensioni dell’apporto dato dalle vere voci degli attori sul processo di definizione dei caratteri che andavano interpretando/creando.
A differenza, infatti, di Happy feet dove la fisicità degli attori era trasferita di peso sul disegno al punto da motivare le fattezze dei personaggi (i grandi occhi di Mumble ricalcati su quelli di Elijah Wood, il fisico algido di Nicole Kidman impresso sul corpo di Norma Jean) Surf’s up è un film in cui la voce diventa parte costituente del processo di messa in immagine del personaggio. Ed è anche per questo che gli attori chiamati in sala di doppiaggio quando il film era ancora all’inizio della sua realizzazione, erano invitati, nei limiti delle possibilità offerte dalle azioni, ad improvvisare il più possibile le proprie battute per dare ai dialoghi e alle situazioni messe in scena quell’aura di verità che raramente si respira in prodotti analoghi e che ben si adatta all’idea di fondo sulla quale è stato ideato l’intero cartone: improntare l’intera narrazione sul modello di un programma di real tv.
In questo modo a venir fuori, nell’edizione italiana, è prima di tutto la dimensione archetipale della trama (un ragazzo che deve imparare a combattere per i propri sogni e un adulto che deve ricordare come erano fatti quegli stessi sogni), mentre la dimensione divertita ed ironica con cui questa trama prende corpo (e che in parte riesce nel miracolo di ridurre la dimensione zuccherosa del messaggio di fondo) appare un poco ridimensionata. E questo anche perché le voci italiane non sempre riescono a rendere quel senso di divertita canaglieria che si respirava sul set del doppiaggio originale e che ancora traspare nelle immagini del cartone che quelle voci hanno contribuito ad evocare.
Intendiamoci, neanche nell’originale si può arrivare ad azzardare che Surf’s up sia un capolavoro assoluto ed incontrovertibile (lo è semmai nel suo genere), ma la sua riflessione sui meccanismi di messa in immagine è molto più utopica di quanto non appaia a prima vista con il suo discorso molto sottile sulla linea che finisce per separare la verità dalla menzogna. Perché Surf’s up è un giocattolo che dice una bugia utilizzando (o fingendo di utilizzare) gli strumenti della presa diretta che dovrebbero essere naturalmente associati alla nostra percezione della verità. È un bugiardo che dice di mentire in una dimensione in cui il "dire", che è coniugato al verbo televisivo (le finte interviste, le finte riprese da backstage), urta con la palese falsità del disegno di cui è sostanziato. In questo modo viene denunciata la dimensione demistificatoria del linguaggio fenomenologico e in presa diretta del mezzo televisivo, ma allo stesso tempo viene anche ridimensionata la carica mielosa dell’happy end che, rimanendo confinato nello spazio della finta diretta televisiva, è falso come tutto il resto della rappresentazione. In questa dimensione di menzogne intrecciate si respira, però, e non possiamo non sottolinearlo, un vento di contraddittoria sincerità che va a toccare proprio la composizione dei personaggi. Perché Surf’s up è uno dei pochi d’animazione americani, a parlare direttamente e senza infingimenti di adolescenti scegliendo il loro linguaggio. Non siamo, insomma, dalle parti di certe produzione Disney in cui i diciassettenni sono, in realtà, dei decenni cui è stata cambiata l’età (ma non il carattere), ma siamo piuttosto in un film che tenta davvero la rappresentazione di “autentici” ragazzi alle prese con le prime cotte, col loro linguaggio franto e gergale, col loro modo di fare a metà tra timido e spaccone (parte del miracolo è certo da attribuire alla voce di Shia LaBeouf che trasferisce nel disegno una notevole fisicità) e con le loro musiche (strepitosa la colonna sonora tra Red Hot Chili Peppers e Pearl Jam).
E’ cinico e tenero, quindi, Surf’s up. Tenero perché ci racconta un coming to an age che piacerà più ai grandi che ai piccini. Cinico perché ci parla di una società che è abituata non tanto a credere alle menzogne (perché nessuno crede più alla verità di quello che passa in TV), ma ad aderire ad esse, a “volersi” come se quello che la televisione propina a tutti noi fosse realmente vero.
Perché nella sua aria da finta real TV, con le interviste ai pinguini bambini e ai protagonisti della vicenda, con gli incastri con le finte trasmissioni televisive, Surf’s up è prima di tutto un gioco di incastri sulla contemporaneità, una riflessione sui limiti del visibile, un pensiero, divertito, ma in fondo attento, sulla nostra definizione di realtà.


CAST & CREDITS

(Surf’s up); Regia: Ash Brannon, Chris Buck; sceneggiatura: Lisa Addario, Christian Darren, Don Rhymer, Joe Syracuse; fotografia: Andres Martinez; montaggio: Ivan Bilancio; musica: Mychael Danna; interpreti dell’edizione americana: Shia LaBeouf, Michael McKean, James Woods, Dana Belben, Brian Benben, Jeff Bridges, Mario Cantone, Zooey Deschanel, Jon Heder, Jane Krakowski; produzione: Sony Pictures Animation; distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia; origine: Usa, 2007; durata: 85’; webinfo: Sito ufficiale


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