Torino 2016 - Ta’ang

Presentato a Berlino, poi ospitato a Locarno, arriva anche al Festival di Torino il penultimo documentario di Wang Bing, gigante del cinema contemporaneo fortunatamente coccolato dai Festival (Venezia 73 ha passato e premiato nella sezione Orizzonti il suo Bitter Money) e da tempo impegnato nel racconto illustrato di realtà sociali ai margini del mondo cinese, registrate con un occhio capace miracolosamente di inserirsi con discrezione e rispetto nelle vite di poveri contadini, diseredati, sfollati, malati di mente, restituendo loro una dignità cinematografica di statura difficilmente dimenticabile.
È dal magnifico San Zimei (Tre sorelle, anche questo presentato a Venezia qualche anno fa) che Wang Bing ha abbandonato (si spera momentaneamente) la via della fiction, per incamminarsi armato di telecamera a mano al seguito di piccole o grandi comunità, e trascorrendo in loro compagnia periodi più o meno lunghi durante i quali è inevitabile che sbocci, tra il proprio obiettivo e qualcuno tra gli individui coinvolti, un’amicizia, un amore, una complicità, che favoriscano lo sciogliersi naturale del racconto di una o più vicende personali all’insegna della miseria, della solitudine, o della determinazione ad affrontare un destino così amaro e impervio con la stessa naturale pulsione alla vita che hanno gli animali.
Questa volta, oggetto dell’indagine di Wang Bing sono i profughi cinesi di etnia Ta’ang, costretti ad abbandonare il Myanmar dilaniato da una guerra civile iniziata nel 2015. Uomini, donne, bambini, tanti bambini, moltissimi bambini, sempre sorridenti e inconsapevoli di un’altra vita possibile, che indossano t-shirt dove campeggiano i simboli del Capitalismo occidentale con il quale non hanno niente a che spartire, sorprendentemente muniti di telefoni cellulari (altrettanto sorprendentemente, sempre in carica, in grado di ricevere il segnale anche in quei luoghi dimenticati dalla Storia), seguiti con una telecamerina leggera capace di mimetizzare il proprio occhio e diventare presenza amica e fidata, e per questo in grado di cogliere una spontaneità e una naturalezza impossibili da ricostruire con una messa in scena pensata, organizzata, scritta. E il tempo passa, tra l’esodo diurno e le soste notturne, in confessioni, esternazioni, dialoghi e conversazioni al lume di candela di vivida autenticità, senza che “il regista” si senta in obbligo di aggiungere, sottolineare, evidenziare. È diventato uno di loro, contenti, o quantomeno tutt’altro che contrariati dall’essere ripresi dalla sua telecamera. Vengono in mente altri esodi e altre migrazioni forzate, recenti e meno recenti, dal dopoguerra balcanico ai barconi sovraccarichi di migranti che approdano sulle spiagge del nostro Sud, e si pensa a come l’Occidente tenda ad impadronirsene mediaticamente per edulcorarli, pomparli, enfatizzarne gli aspetti più drammatici con tutti gli effetti richiesti da una televisione avida di dare in pasto ai propri spettatori emozioni fittizie, gonfiate, e assolutorie per chi immagini del genere le guarda sulla comoda poltrona di casa sua. In questo caso la realtà è talmente dura, amara, pesante, da non permettere alcuna rielaborazione, e suonare, fotografata nella sua oggettiva crudezza, come indiscutibile, non interpretabile. Nella lunga inquadratura finale in campo lungo, quando in lontananza si odono gli echi dei combattimenti della guerra civile, salta all’occhio questa istintiva sete di sopravvivenza degli umani protagonisti, e per una volta si verifica il miracoloso cortocircuito di un cinema purissimo, che sapendo con quale qualità di sguardo osservare la realtà, riesce a raccontarla diventando tutt’uno con essa, insegnandoci a recuperare uno sguardo libero da condizionamenti ideologici, mosso esclusivamente dall’umana pietà e dall’amore. Senza enfasi né retorica da tv del pomeriggio.
(Ta’ang); Regia: Wang Bing; fotografia: Shan XiaohuiWang Bing; montaggio: Adam Kerby, Wang Bingi; produzione: Chinese Shadows, Wil Productions; distribuzione: nome; origine: Hong Kong, 2016; durata: 147’
