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Tabu

Pubblicato il 14 febbraio 2012 da Matteo Galli


Tabu

Si esce dalla proiezione di Tabu, il film del regista portoghese Michael Gomes, passato a Cannes nel 2008 con il suo precedente Aquele querido mes de agosto, con una sensazione controversa: da una parte si capisce subito che vederlo una volta non basta, dall’altra... Non basta per cogliere la valanga di riferimenti cinematografici di cui pullula, a cominciare dal titolo e dalle due parti in cui è diviso: il film di Murnau però partiva col “paradiso” e proseguiva col “paradiso perduto”, nel film di Gomes le parti sono invertite e mentre il tabu di Murnau era quello che tutti conosciamo, cioè il termine di origine polinesiana che sta significare cosa sacra e proibita, nel film di Gomes diventa un toponimo immaginario, di una colonia africana non meglio precisata. Ma alle presunte pendici del monte Tabu ci si arriva dopo quasi un’ora. La prima metà del film, salvo un breve prologo anticheggiante che scopriamo essere a sua volta un film visto in sala dalla protagonista Pilar, ambientato anch’esso nelle colonie, si svolge tutta in un anonimo caseggiato di Lisbona negli ultimi giorni di dicembre del 2010 e descrive una costellazione che potrebbe far pensare a Kaurismäki in salsa lusitana: una pensionata, Pilar, appunto, religiosissima, tutta dedita all’impegno sociale e al volontariato, una vicina di casa più anziana, ipocondriaca, che si gioca al casinò i soldi che non ha, che ha una figlia che non si vede mai ed è convinta che la domestica/badante capoverdina, Santa, le stia facendo la macumba, mentre lei fa dei sogni che avrebbero fatto la gioia di Dalì, Buñuel e Freud, che poi racconta anche, con un’incredibile dovizia di particolari. Pilar, la “missionaria” cerca di dare una mano accogliendo ora gli sfoghi della badante ora quelli della signora. Fin quando, è appena iniziato il 2011, la signora Aurora, così si chiama l’anziana non muore (altra citazione da Murnau?), non senza lasciare il mandato di rintracciare un signore, altrettanto anziano proveniente niente meno che da Genova, ma ora in Portogallo, in una casa per anziani: Gian Luca Ventura (parente di Ace? Parente di Lino? Non si può escludere nulla). Pilar e Santa rintracciano l’anziano signor Ventura e qui, col lungo racconto di Gian Luca, in voce off oppure over inizia la seconda parte del film. La prima, francamente, non ha detto granché: pauperismo, costellazioni ricorrenti e noiosette, personaggi poco interessanti, oltre ai citati rimane da menzionare un pittore fallito. Restano solo le curiosità sul prologo (perché?), sul titolo (perché tabu?) e sul sottotitolo (perché paradiso perduto?). La seconda parte si svolge tutta in Africa (era quello il paradiso, dunque) e qui il regista si scatena sparando addosso allo spettatore citazioni su citazioni dai più diversi film: melodrammi di ambientazione coloniale, già Tabu di Murnau lo era, ma poi La Mia Africa (nel giorno in cui Berlino consegna l’Orso alla Carriera a Meryl Streep) Mogambo, a un certo punto si fa riferimento anche ad un film (inventato) della RKO, sequel delle Nevi del Kilimangiaro che fu, dice Ventura, un clamoroso flop; melodrammi etero e melodrammi gay con Sirk, Fassbinder e Almodovar che strizzano l’occhiolino; film “politici” sulle rivolte nelle colonie; musicarelli in cui una band italiana si mette all’improvviso a improvvisare concertini da balera anni ’60, cui è da aggiungersi il fatto che l’intera seconda parte è, eccetto per i rumori e per la voce fuori campo del vecchio Ventura, completamente muto e dunque all’estetica del film muto intende rifarsi (chissà se l’idea è venuta prima a Gomes oppure a Hazanavicius). Nelle note di produzione si legge che tutta la seconda parte del film è stata completamente improvvisata, c’era – racconta Gomes – un “comitato centrale” composto da regista, sceneggiatore e assistente alla regia che decideva cosa girare, cosa l’indomani rigettare etc. Diciamo che non c’era bisogno che Gomes lo dicesse, si vede: la troupe si è divertita, che poi tutta l’operazione produca un significato, ho molti dubbi, anche la costellazione mélo - l’amour fou di Ventura e Aurora ostacolato dal fatto che la donna è sposata; la morte di Mario, innamorato di Ventura – è solo il pretesto per un divertissement, per un citazionismo esasperato e anche i titoli delle due parti restano, alla fine, del tutto privi di referenzialità, il film non è certamente una pellicola sulla sindrome post-coloniale. La citazione più assurda? Aurora tiene nella piscina di casa il suo animale domestico, un coccodrillo (c’era già nel prologo e c’è nel manifesto del film che occhieggia), che ha il brutto vizio di scappare; e quando inizia la storia con Ventura sapete come lo soprannomina? Dandy. Ci siete arrivati? Mr. Crocodile Dundee.
Si diceva all’inizio: sensazione controversa. Da una parte: questo film andrebbe rivisto per cogliere tutte le citazioni. Dall’altra, in fondo, anche no. Poi magari la giuria berlinese, colta da improvviso e ingiustificato tarantinismo, gli dà l’Orso d’Oro, anche se sul piano estetico-formale, malgrado il bianco e nero, malgrado i 16mm, Tabu non è niente di che.


CAST & CREDITS

Regia: Miguel Gomes; sceneggiatura: Miguel Gomes, Mariana Ricardo; fotografia: Rui Poças; montaggio: Telmo Churro, Miguel Gomes; interpreti: Teresa Madruga (Pilar), Laura Soveral (Aurora da vecchia), Ana Moreira (Aurora da giovane), Henrique Spirito Santo (Ventura da vecchio), Carloto Cotta (Ventura da giovane), Isabel Cardoso (Santa), Ivo Müller (il marito di Aurora), Manuel Mesquita (Mario); produzione: O Som e a Furia, Lisbona; origine: Portogallo-Germania-Brasile; durata: 111’.


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