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Taxi Teheran

Pubblicato il 27 agosto 2015 da Matteo Galli
VOTO:


Taxi Teheran

Fin dall’epoca del muto il taxi è un luogo - Bachtin lo chiamerebbe un cronotopo - privilegiato al cinema. E lo è per almeno due ragioni: sul piano tecnico rappresenta una sfida, quello che in inglese si definisce un self-constraint, ossia una limitazione obbligata nelle inquadrature, nelle prospettive, nei movimenti di macchina; sul piano antropologico rappresenta un luogo in cui viene a sfilare un vasto e variegato campionario di umanità, un luogo insomma in cui è possibile raffigurare la commedia umana nella sua transitorietà, nel suo irrequieto tendere verso una mèta. Bisogna aggiungere che i film sui taxi/con i taxi presentano sempre un duplice rischio che si potrebbe così riassumere: claustrofobia ingenerata dagli spazi e giustapposizione di sequenze e storie diverse senza un filo conduttore, talché molti film che recano la parola taxi nel titolo spesso e volentieri dal taxi escono, si pensi fra tutti a Taxi Driver.

Due sono gli elementi imprescindibili dei film sui taxi: il tassista e la città. La classica combinazione prevede infatti: città nota o in qualche modo riconoscibile e tassista interpretato da attore molto noto. Pensiamo alla quintessenza del genere, ossia a Night On Earth di Jim Jarmusch del 1991, con città, tassisti, passeggeri molto noti. Per restare all’Italia, basterà ricordare Il tassinaro di e con Alberto Sordi del 1983. Quasi ogni metropoli del mondo ha il suo taxi-film. All’appello mancava Teheran, anche se, a dire il vero, le filmografie riportano anche un film intitolato Tehran Taxi del 2006 e, in fondo, anche se la struttura di Dieci (2002) di Abbas Kiarostami non è molto dissimile e la città è appunto Teheran.
Il tassista di eccellenza stavolta è il regista stesso Jafar Panahi, che sceglie di cogliere tutte le sfide che il genere prevede e, si può dire fin da ora, nella gran parte dei casi le vince con brillantezza e non senza una certa (amara) ironia. Bisogna ricordare che, nel presente caso, l’angustia claustrofobica del taxi, di cui sopra, è da leggersi come correlativo oggettivo della condizione politica di Panahi, che dal governo iraniano, come si sa, ha ricevuto il divieto di girare e che dall’Iran non si può muovere.

Il film denuncia fin dall’inizio con una certa levità il suo statuto meta-cinematografico: i passeggeri, non tutti, riconoscono il regista e lo chiamano per nome, citano scene dei suoi film, gli sguardi in macchina sono numerosi. E seppur non in modo troppo ossessivo, il cinema è anche uno dei temi ricorrenti della pellicola, per esempio tramite l’incontro con un dealer di DVD illegalmente scaricati e piratati, la cui funzione sembra andare ben oltre la classica fruizione in tempo reale dei blockbuster americani appena usciti, configurandosi piuttosto come una - qua là un po’ affaristica e cialtrona - alfabetizzazione politico-culturale della sua clientela, vittima altrimenti della censura di regime che semplicemente molti film non li farà mai circolare; l’altro personaggio tramite il quale il tema del cinema, nelle sue implicazioni educative, riveste un ruolo decisivo, è la nipote del regista, ragazzina oltremodo faconda e saccente, che a sua volta durante il film riprende di continuo con la sua piccola videocamera. Le sue riprese si rivelano alquanto complicate perché il sistema educativo le ha già inculcato tutta una serie di principi estetico-politici che lei ha sì provveduto a introiettare ma che di fatto le impediscono uno sguardo libero sul reale. Il tassista-regista parla molto poco, sorride, ascolta, comprende.

L’altro grande tema del film, intimamente connesso col precedente, è il tema della delinquenza e della giustizia. Fin dal primissimo dialogo fra un uomo equivoco, fautore di una giustizia sommaria e punitiva nei confronti della delinquenza comune, e un’insegnante che difende tenace le istanze della ragione, proclama la necessità di indagare sempre le cause sociali che inducono al crimine e sancisce l’inutilità, in un’ottica di deterrenza, delle esecuzioni capitali. E il tema della giustizia chiude a cornice il film nel dialogo con l’avvocatessa, che sarà ben presto sottoposta, al pari di Panahi, al Berufsverbot dal regime iraniano. Ma in questo film bello e composito sono forse gli episodi più “inutili” sul piano ideologico quelli che restano più impressi: un ferito raccattato per strada insieme alla moglie che chiede con l’i-Phone di Panahi di poter essere filmato in modo da poter lasciare, in caso di morte, le sue ultime volontà (di nuovo, seppur in un contesto solo privato, la funzione testimoniale del cinema) e l’episodio, forse, più lirico e assurdo di tutti, ossia quello che vede al centro due signore belle robuste che, in omaggio a una sorta di rituale magico-superstizioso, vogliono riportare alla fonte due pesciolini rossi. Il film si chiude con un messaggio che è al tempo stesso di angoscia e di speranza. Approfittando dell’assenza momentanea del tassista/regista, la polizia – lo schermo diventa nero - fa irruzione nella macchina e distrugge/sequestra la macchina da presa. Meno male che Panahi si era portato via la chiavetta USB con dentro le immagini che abbiamo appena finito di vedere.


CAST & CREDITS

(Taxi); Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografia, montaggio e interprete: Jafar Panahi; produzione: Jafar Panahi Film Production; origine: Iran, 2015; durata: 82’.


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